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Ritratto di Andrea Anastasio. Photo © Giuliano Koren

Andrea Anastasio, l’artista e il designer filosofo che lavora con la luce (articolo pubblicato su LUCE 344, giugno 2023)

By Pierluigi Masini
Pubblicato il
23 Aprile 2024

LUCE ha incontrato Andrea Anastasio, designer, artista, appassionato studioso di filosofie orientali che mette al centro dei suoi progetti sempre l’uomo e la sua dimensione spirituale coniugando tradizione e innovazione.

Ad aprile ero a Delhi. E al mattino dell’ultimo giorno, prima di tornare per la Milano Design Week, sono andato a fare una passeggiata tra le rovine dell’antica Tughlaqabad. I siti archeologici mi attirano, soprattutto se non hanno recinti, non sono gentrificati e conservano molta natura. A un certo punto, camminando, ho fatto uno di quegli incontri che più mi arricchiscono e mi mantengono in una dimensione innamorata con la vita, la minuscola tomba di un sufi a ridosso dei bastioni della città…”.

Andrea Anastasio, artista e designer, è un appassionato studioso di filosofie orientali e la sua ricerca progettuale parte sempre dall’uomo e dalla sua dimensione spirituale. Sa stupire parlando di incontri inattesi e di esperienze non comuni che racconta con una sensibilità rara. La stessa che ora ci porta li, a vivere la sua emozione davanti a una luce imprevista.

“Quando sono arrivato, gli uccelli che hanno il nido lì sopra hanno cominciato a cinguettare per avvisare gli altri e ho visto questo luogo, segnato da un’infinità di striscette di carta stagnola dorata legata ai rami di un albero che domina la piccola tomba. Il sole e il vento, insieme, facevano un effetto struggente, prima attraverso il suono delle strisce metalliche in movimento, poi con la luce che si rifletteva e frantumava lo spazio in maniera poetica, connettendolo a questo luogo. Perché la tomba è il ricordo di quel transito tra l’esserci, con una forma e il non esserci più”.

La luce è al centro della sua ricerca. Quale la colpisce di più?

Ritratto di Andrea Anastasio. Photo © Giuliano Koren

Questa che ho descritto, ad esempio. La forma che la luce prende nella nostra vita quando si esprime attraverso lanterne nella notte, piccoli riflessi di specchietti, pezzetti di carta stagnola che si muovono nel vento: ecco questo diventa importante nella mia ricerca artistica. Perché le forme luminose che sento più vicine sono quelle meno intense che si articolano per trasparenza, attraverso un materiale che ce le edita o che la riflette in modo evocativo. La luce e un tema centrale nella mia ricerca e, aver compiuto studi di filosofia orientale, mi ha dato l’opportunità di approfondire altre narrazioni mitologiche e filosofiche, mi ha portato a capire quanto questo tema sia importante.

Ci racconti…

(sorride) Mi ha sempre sorpreso constatare che la riflessione sulla luce e connessa a quella sul calore. La luce ha a che fare tipicamente con il fuoco e, soprattutto nelle culture indoeuropee, e qualcosa che introduce l’elemento vitale, legato appunto al calore, ma anche l’elemento distruttivo – il fuoco che distrugge in maniera purificatrice. Tutti i rituali importanti del culto vedico passano attraverso il fuoco e tuttora, quando si entra nei templi per compiere un rituale di offerta alla divinità, il bramino fa passare la fiamma sotto al corpo e, prima di arrivare al sancta sanctorum, fa in modo che i devoti possano quasi toccare la fiamma con le mani. Questo accoppiamento luce-calore, fin dall’inizio del mio percorso, mi ha fatto riflettere su quanto sia stato importante il passaggio dall’illuminazione legata alla fiamma a quella della luce elettrica.

Vuol dire che c’è qualcosa legato alla luce che ci portiamo dietro senza rendercene conto?

Quando noi accendiamo la luce, con un interruttore o un telecomando, anche in maniera del tutto inconscia rimaniamo connessi a un gesto che per millenni ha fatto di questo rituale un momento centrale all’interno della giornata. La luce, legata al calore, ha sempre coinvolto sia la vista che il tatto ed e stata al centro di tantissime narrazioni, sia etiche che poetiche. Nel bellissimo testo scritto da Roberto Calasso sulla mitologia indiana, L’Ardore, questo ha a che fare proprio con il dio del fuoco Agni che ha la stessa radice del latino Ignis, fuoco appunto. Ci fa riflettere, oggi, su quanto la luce come calore, ovvero ardore, sia all’origine dell’addomesticamento dell’ignoto. L’aver sperimentato, per la prima volta, in maniera fisica e reale, il buio dello spazio in cui i corpi luminosi si muovono, il terrore di veder tramontare il sole e di sentire il freddo insieme al buio, ecco sono cose che fanno parte del nostro DNA. In maniera più o meno consapevole, tutti i miei progetti con la luce partono da una riflessione su queste infinite tracce riconducibili all’interno del percorso, straordinario, di millenni di interazione dell’uomo con il fenomeno luminoso.

E cosa ci insegna invece la filosofia?

Sappiamo bene come Platone avesse immaginato il rapporto dell’uomo e della coscienza, con la vita proprio attraverso il riflesso, l’ombra nella caverna. E questo e qualcosa che non mi ha mai lasciato. Anche quando, soprattutto all’inizio del mio percorso autoriale, ho preferito avvalermi della dimensione ludica. Penso alla collezione Milano-Venezia di Artemide del 1990 che, in realtà, nasce da una lampada presentata alla galleria di Antonia Jannone l’anno prima. Si chiamava Children’s Corner e partiva dalle composizioni di Claude Debussy, un gesto ludico connesso al vetro muranese, il più articolato e colorato del mondo. Ernesto Gismondi la volle riallestita in Artemide e diede poi origine alla collezione, a lampade come Ina, Efesto e Giocasta che delle tre e la più famosa. Tutti giochi che utilizzavano varie dimensioni cromatiche del vetro con delle forme vagamente organiche, come bulbi colorati. È stato l’elemento ludicocromatico, legato alla meraviglia nell’accezione più semplice, l’inizio della mia ricerca sulla luce.

Lampada da terra della collezione Giocasta per Artemide. Photo courtesy Artemide
Esodi berrettino, lampada del progetto Battiti per Foscarini. Photo courtesy Foscarini

Anche l’ombra la affascina?

Sì, soprattutto quando ho potuto avvicinarmi al Teatro delle ombre che è qualcosa di realmente potente, strumento dei racconti mitici legati alle divinità in tutta l’area indiana. In questa rappresentazione la forma della divinità passa attraverso la marionetta che non viene esposta direttamente alla vista del pubblico, ma proiettata su un grande telo cosi da essere ingigantita, avvicinata all’impalpabile. Da alcuni mesi sto lavorando sul Teatro delle ombre con due comunità che ancora sopravvivono nel Sud dell’India, una in Kerala e una in Andhra Pradesh e con loro sto portando avanti un progetto finanziato da Kaash, una fondazione che tiene in vita processi manuali e conoscitivi legati alle tradizioni indiane meno note. Stiamo lavorando a una serie di sculture luminose e di lampade interamente realizzate in pelle di capra o di bufalo, come le marionette: un materiale che conserva una semitrasparenza che dà alla luce una temperatura estremamente calda, morbida. La pelle animale e stata la prima protezione dell’uomo, rivestiva il corpo ed era, di fatto, il primo spazio abitato. Questa semiopacità le trasforma in un diaframma luminoso e ci porta a immaginare una dimensione giocosa – ma anche tragica – di entità che sottraggono all’uomo il fuoco e la luce.

Momenti del Teatro delle ombre indiano. Photo © Andrea Anastasio
Momenti del Teatro delle ombre indiano. Photo © Andrea Anastasio

E arriviamo all’arte che si esprime con la luce…

Scultura luminosa realizzata nell’ambito di un progetto finanziato da Kaash. Photo © Andrea Anastasio

Per me gli artisti più importanti della modernità sono quelli che hanno lavorato con la luce, in particolare Dan Flavin e James Turrell, entrambi americani, portatori di due Americhe molto diverse. Flavin attraverso la ritmica luminosa e cromatica dei tubi al neon definisce lo spazio, ma utilizza uno strumento che deriva dall’illuminazione stradale, dalla pubblicità e dal mondo dei consumi. Turrell, invece, fa una riflessione tutta astratta sulla luce, sugli spazi infiniti della natura americana, sul rapporto della luce con la Terra. Noi siamo dentro questa narrazione perché la Terra e avvolta dall’atmosfera: se non ci fosse non vedremmo l’alba e il tramonto, ma solo il corpo luminoso del Sole apparire e scomparire dentro a un’infinita buia. L’atmosfera ci permette di vivere le diverse tonalità e le diverse temperature della luce. L’alba e il tramonto ci fanno poi comprendere molto bene la terza dimensione, quella del tempo, cioè Kronos, che è profondamente connesso alla luce e all’ombra, all’alternarsi del buio e della luce che costituisce il ciclo e il ritmo vitale.

Dalla luce e dall’ombra siamo arrivati a parlare del tempo...

Lo scandire del tempo passa attraverso il movimento delle ombre visibili con le meridiane. Prima dell’invenzione dell’orologio il rapporto con Kronos era questo: ore diurne e notturne, l’allungamento delle une o delle altre in rapporto alle stagioni. Che poi si traduce, nel mondo contemporaneo, attraverso l’accensione o lo spegnimento della luce elettrica, come alternanza di ore di lavoro di giorno e ore di riposo di notte. Anche se oggi paradossalmente non è più così, ma diventa un continuum, uno spazio parallelo rispetto a quello naturale che permette l’esercizio di attività in tutta la giornata. Una cosa alla quale ci aveva introdotto Brian Eno con una mostra molto poetica in cui poneva schermi tv orizzontali per dare forma a tutta una serie di ombre cromatiche che accompagnavano la sua musica. Era l’inizio della dimensione della luce degli schermi dei computer che a qualsiasi latitudine caratterizzano oggi la vita quotidiana di milioni di persone. E cosi la scrittura che per millenni e passata attraverso il segno, il tratto, la traccia, se ci pensiamo, ora passa attraverso la luce dello schermo.

Infine, vorrei che raccontasse Fregio, il suo ultimo lavoro…

L’ho presentato a Euroluce con Foscarini, si chiama Fregio ed e connesso alla luce del bassorilievo. Parte, appunto, da un fregio ceramico floreale, tagliato in maniera volutamente arbitraria, per riflettere su quanto i volumi delle plastiche siano legati a doppio filo alla luce. Un bassorilievo vive nel momento in cui la luce lo lambisce e, quanto più la luce e radente, tanto più vengono definiti i suoi volumi. Volevo una lampada che di giorno fungesse da bassorilievo e, quindi, vivesse della luce che arriva sulla sua superficie plastica e, di notte, invece restituisse la luce. Mi divertiva questo gioco ed e il motivo per cui la lampada e un fregio vero e proprio, sospeso in aria: una sospensione fatta di due fregi tenuti assieme da due reggette all’interno delle quali corre tutta la parte tecnica, con una doppia illuminazione rivolta in alto e in basso. Ho scelto la ceramica perché è una materia che ho guardato con grande fascino e grande timore, per decenni, tanto e ricca di narrazioni. Io ho iniziato con il vetro e la ceramica e veramente l’opposto. Anche se entrambi hanno bisogno del fuoco per essere. Poi e successo che, qualche anno fa, ho avuto questa chance potentissima di lavorare all’interno della Bottega Gatti di Faenza e da lì e iniziato tutto il percorso che sto compiendo. Fregio nasce proprio dal voler riportare dentro l’illuminazione una materia che c’è stata per secoli – basti pensare che un tempo le lanterne erano di terracotta ma, anche con il passaggio all’elettricità, la ceramica e la porcellana restano materiali utilizzati. Terra e acqua, forgiate e poi fissate dal fuoco che vivono nello spazio in relazione alla luce. Quindi era importantissimo che questa lampada fosse in ceramica e che uscisse fuori con due matrici, Bottega Gatti e Foscarini. Cosi sono riuscito a legare insieme due capacita manifatturiere: una più antica che ha cento anni di vita e l’altra più giovane, ma ugualmente significativa.

Lampade Fregio montate nell’installazione (IM)POSSIBLE NATURES presso Foscarini Spazio Monforte durante la Milano Design Week 2023. Photo courtesy Foscarini
Fregio, particolare. Lampada realizzata per Foscarini. Photo courtesy Foscarini

AUTHOR

Pierluigi Masini

Pierluigi Masini è giornalista professionista, laureato con lode in Lettere alla Sapienza di Roma, indirizzo Storia dell'arte. Dopo aver lavorato per 35 anni al Gruppo Monrif (Il Giorno, il Resto del Carlino, La Nazione), oggi collabora con diverse testate e si occupa di arte e design. Ha scritto con Antonella Galli il libro I luoghi del design in Italia edito da Baldini+Castoldi.

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