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Ron Gilad, Floating House (Casa fluttuante), 2013, legno, alluminio e acciaio, Wright Gallery, Chicago. Photo © Uri Grun; courtesy of Wright Gallery, Chicago

Ron Gilad: la luce che nutre l’emozione (articolo pubblicato su LUCE 346, dicembre 2023)

By Monica Moro
Pubblicato il
23 Aprile 2024

LUCE ha incontrato il famoso designer Ron Gilad in un pomeriggio ancora assolato di fine estate a Milano, dove ha uno studio e insegna product design al Politecnico.

La nostra domanda d’esordio è “ama l’Italia?” a cui segue la risposta “sì”. Quando gli chiediamo com’è avvenuto il suo incontro con il nostro Paese, ci racconta che “Il primo contatto con la realtà italiana è avvenuto proprio a New York, nella Grande Mela”, tramite Paola Antonelli, curatrice delle mostre sul design al MoMA. “È stata lei a presentarmi ad Adelaide Acerbis dell’azienda Driade che mi ha subito chiesto di poter visitare il mio studio. È stato il primo incontro con l’industria italiana. In seguito ho conosciuto Piero Gandini che mi ha chiesto di realizzare progetti di lampade per Flos. Così è iniziata una storia d’amore con il vostro bel Paese che per me rappresenta la Bellezza e non solo nel senso classico. Qui tutto è bello a cominciare dal paesaggio”.

Il rapporto con la luce

Prendiamo spunto da alcune delle lampade per Flos Wall piercing, 2620 e la Miniteca e gli chiediamo di parlarci del suo rapporto con la luce. I grandi passi avanti nella tecnologia dell’illuminazione hanno aperto un’infinità di nuove possibilità per i progettisti e per le aziende. Possiamo paragonare la scoperta del LED con l’esempio di uno scultore che durante tutta la sua vita ha svolto la sua arte scolpendo il marmo, la pietra o forgiando il metallo, ma quando un giorno all’improvviso qualcuno gli dice ‘guarda, c’è un nuovo materiale: il legno’, per lui si apre un nuovo mondo. La lampada decorativa, se portata nel mondo della creatività e della bellezza diventa un’opera artistica, come un quadro o una scultura luminosa. D’altronde anche l’ergonomia riferita alla luce è diversa dalla disciplina classica, poiché, rispetto a un divano, una sedia o un tavolo, l’unica interazione con una lampada è accenderla o spegnerla o regolarne l’intensità, non ci sono le tante complicazioni della postura o del movimento che limitano la creatività. Nei miei progetti preferisco creare domande aperte che non hanno una risposta definitiva o perfetta. La mia ricerca artistica non si trasforma in pura matematica, in una formula chiara con una risposta univoca. A volte mi piace giocare in questa zona vaga in cui ti intriga qualcosa, riconosci qualcosa, ma non sai esattamente dove stai andando nel progetto. Come artista apprezzo molto poter lavorare svincolato dai limiti, poter progettare ‘cose’ come lampade e oggetti luminosi con piena libertà di espressione. Come ho fatto per esempio, per Cassina con gli specchi della collezione Deadline”.

Ron Gilad, Floating House (Casa fluttuante), 2013, legno, alluminio e acciaio, Wright Gallery, Chicago. Photo © Uri Grun; courtesy of Wright Gallery, Chicago
Ron Gilad, Welcome Out (Benvenuti fuori), 2013, acciao, corten e traforo. Wright Gallery, Chicago. Photo © Uri Grun; courtesy of Wright Gallery, Chicago

“Nel posto dove lavoro – da solo con un assistente – mi sposto a rotazione inseguendo il sole come fanno i girasoli nel mio studio” ci racconta Ron Gilad con i suoi modi gentili e questo ci dà lo spunto per chiedergli se per lui la luce è una questione di poesia. “Questa è una delle domande che mi pongo spesso. Personalmente mi sento nutrito dalla luce naturale e quindi durante il giorno viaggio con il sole. Mi ci sono voluti otto mesi per trovare uno studio a Milano, perché era fondamentale per me avere una finestra a sud. Amo il mio lavoro, ma cerco anche di avere il tempo di prendermi cura del mio piccolo giardino e, a volte, anche di guardare il soffitto. Per ciò che riguarda la luce credo che la battaglia vera della luce avvenga di notte con la luce artificiale. È molto difficile trovare quella giusta corrispondenza tra la magia della luce e lo spazio che ci possa far sentire bene. Una tipologia di luce può funzionare benissimo in un luogo e terribilmente in altri, perché è legata anche alla matericità, ai colori, ai riflessi. Perché la luce viaggia, non è statica, non viene emessa e basta, ma continua a muoversi e a rimbalzare nello spazio. Trovare il giusto equilibrio tra lo spazio o la superficie del tavolo e la sorgente di luce è un lavoro difficile”.

EnLIGHTenment

Ron Gilad all’ingresso di EnLIGHTenment. Photo © Alberto Strada; courtesy by Nemo Lighting

Siamo curiosi e vogliamo approfondire con questo artista designer sempre sorprendente EnLIGHTenment, la mostra organizzata e curata per la celebrazione dei 30 anni di Nemo e premiata con il Fuorisalone award 2023: menzione speciale comunicazione, il premio dedicato agli eventi più acclamati della Milano Design Week. “La richiesta da parte dell’azienda è stata: ‘Il materiale per la mostra è il nostro catalogo, sono i nostri prodotti‘. La sfida era molto interessante per me, perché il mio committente e interlocutore è un’azienda industriale e anche commerciale che, in questo caso, non cercava di vendere nulla e neanche di fare una nuova lampada, ma voleva semplicemente celebrare l’anniversario dell’azienda”.

Ron Gilad ci confida che EnLIGHTenment è una storia di amicizia e di collaborazione. “Credo nel legame e nella fiducia tra le due parti di un progetto. Mi è stata data molta libertà, non avevo limiti specifici oltre allo spazio e ai materiali. Non si trattava di creare un’esposizione o di cercare di vendere un prodotto, quindi ho tentato, piuttosto, di cercare di guardare sotto una luce diversa prodotti già famosi. La mia idea è stata di fare una mostra sull’emozione data dalla luce e non sugli apparecchi di illuminazione. Volevo ‘inscenare’ la luce. Le lampade c’erano per emettere la luce, ma non erano loro le protagoniste. Nel dialogare e giocare tra loro facevano della propria luce emessa la protagonista e poi doveva essere sulla scena anche un performer – in questo caso io – che aveva il compito di attivare la luce. Come artista volevo essere presente fisicamente nel luogo non solo come motore creativo esterno. Alla fine, ho deciso di presentarmi nelle vesti di un maggiordomo che offriva la luce agli ospiti e la portava in giro per la casa”.

Ha usato la stampa 3D come metodo di rappresentazione di se stesso?

Volevo realizzare una scultura iperrealistica di me stesso e la stampa 3D sembrava il processo più semplice. Ma è molto difficile scansionare il corpo intero di una persona in una posizione specifica, perché richiede molto tempo e ogni piccolo movimento rende il modello distorto e impreciso.  Alla fine, la scelta è stata quella di scansionare le parti del mio corpo per poi assemblarle nel computer. Forse sarebbe stato più facile andare a cercare un bravissimo studente o scultore all’Accademia di Brera che avrebbe potuto fare il lavoro in modo molto più semplice.

Qual è il ruolo del designer oggi?

Forse di essere un risolutore di problemi. Per le menti creative il campo di gioco sta diventando sempre più piccolo, ma credo nella nuova generazione di studenti che sono curiosi e hanno il piacere della ricerca. Al giorno d’oggi non sempre si deve guardare gli oggetti dal lato artistico e bisogna educare gli studenti soprattutto a dare risposte all’industria e al mondo, non a creare solo emozioni. Queste sono un effetto collaterale. Prendiamo, ad esempio, lo smartphone: fondamentalmente è uno strumento, non è niente di più, risolve problemi. Ma come viene lanciato questo tipo di prodotto? Viene presentato come il nostro nuovo migliore amico e chi studia e realizza questa presentazione è molto convincente, perché si parla della materialità dell’oggetto, dei suoi valori e di tutto il resto che riesce a far appello al nostro immaginario.

Ron Gilad, Smoking House (Casa fumante), 2013, acciao, matite, carboncino su muro e chiodo. Wright Gallery, Chicago. Photo © Uri Grun; courtesy of Wright Gallery, Chicago
Ron Gilad, Line No.1, 2009, ottone smaltato. Wright Gallery, Chicago. Photo © Uri Grun; courtesy of Wright Gallery, Chicago

Come vede il futuro?

Nel ruolo di docente universitario che cerca di educare gli studenti ad appassionarsi al design mi interrogo su che cosa potrebbe accadere. È un fatto certo che stiamo diventando globali e dobbiamo aumentare il nostro spazio creativo, il che vuol dire che abbiamo bisogno di più dipendenti nelle nostre aziende e di un maggiore raggio d’azione. Questo significa, quindi, che dobbiamo iniettare molta energia positiva per arrivare a un punto in cui diventiamo anche redditizi. Spesso, come designer o come aziende, può capitare che, invece, dobbiamo scendere a compromessi per parlare a un pubblico più ampio, in altre parole, molta offerta si riduce a prodotti di base. È andata persa una parte del coraggio che, per esempio, aveva l’industria italiana negli anni ‘60, ‘70, ’80. Una parte delle aziende sta perdendo la propria identità, il paesaggio della merce si sta appiattendo.

Questo succede a causa delle norme o dei nuovi concetti come il riciclo o l'economia circolare?

No, anzi li vedo come sfide non come limitazioni e trovo molto interessante affrontarli. La domanda invece è: “Che cosa facciamo? Produciamo un altro divano uguale agli altri, facciamo un’altra lampada sferica?” Credo che a volte ci si affidi alla certezza invece che al coraggio creativo e innovativo. Personalmente mi piace lavorare con le aziende e i loro ingegneri, perché, a differenza di quando lavoro come artista che devo fare tutto solo con le mie forse, nell’industria hai tantissimo supporto e la possibilità di dialogo. Ciò è importantissimo perché penso che, molte volte, le cose nascano da un confronto e non necessariamente dalle persone singole.

Concludiamo la nostra conversazione chiedendogli che cosa pensa dell’intelligenza artificiale

Secondo me software come ChatGPT sono solo strumenti. Fino alla fine del XVIII secolo pittori come Jan van Eyck ricercavano l’iperrealismo nei loro dipinti. Poi a un certo punto è stata inventata la macchina fotografica e improvvisamente tutta la ricerca artistica in questa direzione si è interrotta, portando artisti come Duchamp o Picasso a sviluppare nuove tecniche. La macchina fotografica, uno strumento avanzato per l’epoca, ha fatto cambiare direzione all’arte e penso che forse l’AI farà viaggiare l’arte e la cultura verso nuovi luoghi.

AUTHOR

Monica Moro

Collabora a LUCE dal 2014, scrive di architettura, design e colore. Nata in Svezia, dove ha insegnato per diversi anni design all'Università LNU. Cultore presso il Politecnico di Milano. La sua formazione architetto e industrial design Domus Academy, ha collaborato con Andrea Branzi. Designer freelance e ricercatrice sul colore e la valorizzazione del patrimonio culturale. Passione coltivata lo Yoga

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