“MORONI. IL RITRATTO DEL SUO TEMPO”. LA MOSTRA ALLE GALLERIE D’ITALIA – PIAZZA DELLA SCALA, MILANO

Giovan Battista Moroni
Ritratto di Don Gabriel de la Cueva, Duca di Alburquerque, 1560
Olio su tela, 114,8 x 90,8 cm
Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie
Photo credits: Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie / Christoph Schmidt

Entrare nelle Gallerie d’Italia a Milano in Piazza Scala è un’immersione nella storia dell’architettura e dell’arte in sé, dove si compie un viaggio dentro l’evoluzione della bellezza di ieri e di oggi.

L’esperienza culturale è totalizzante con la mostra Moroni. Il ritratto del suo tempo, a cura di Simone Facchinetti e Arturo Galansino, di respiro internazionale, dedicata al pittore bergamasco protagonista del Rinascimento lombardo che ha sedotto Bernard Berenson, Jacob Burckardt, Roberto Longhi, Flavio Caroli e altri illustri storici dell’arte.

Questa esposizione unica per completezza e qualità pittorica, grazie a prestiti di prestigiose istituzioni nazionali e internazionali, comprende un centinaio di opere tra dipinti, disegni, libri, medaglie, armature; è l’occasione per capire in che cosa consiste l’originalità di Moroni, anche nella pittura devozionale, e come il pittore bergamasco perfeziona l’orientamento naturalistico nei suoi “ritratti in azione”, insito nella pittura lombarda, superando i canoni della scuola veneta rappresentata da Giorgione e Tiziano che segna l’Italia settentrionale dell’epoca. L’esposizione, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, è inserita nelle iniziative di Bergamo Brescia Capitale Italiana della cultura 2023 ed è realizzata in collaborazione con l’Accademia Carrara di Bergamo e Fondazione Brescia Musei (fino al 1 aprile 2024).

RITRATTO DI GIOVANNI BATTISTA MORONI

Giovan Battista Moroni
Ritratto di vecchio seduto con un libro (Pietro Spino)
1576-1579 circa
Olio su tela, 97,5 x 81,2 cm
Bergamo, Accademia Carrara
Su concessione di Fondazione Accademia Carrara, Bergamo

Giovanni Battista Moroni (1521-1580), si è formato presso la bottega del bresciano Alessandro Bonvicino detto il Moretto, dal quale ha ereditato l’inclinazione per i dipinti di soggetto religioso che ha maturato durante la sua prima attività trentina, coincidente con il Concilio. Dal 1550 Moroni è a Bergamo dove entra in contatto con le principali famiglie aristocratiche filospagnole che ha immortalato nei suoi minuziosi ritratti psicologici. Nel 1561 Moroni, in seguito all’invasione di Bergamo da parte della Repubblica di Venezia, torna ad Albino, suo paese natale, dedicandosi per lo più a temi sacri senza omettere il ritratto. Moroni nell’arte del ritratto è imbattibile, in un’epoca in cui Lorenzo Lotto, Gerolamo Savoldo, Moretto e i maestri veneziani Tiziano, Tintoretto, Veronese, presenti in questa mostra, cominciano a raccontare la modernità, in cui l’abito “fa il monaco”, anche attraverso tessuti lussuosi e gioielli di raffinata fattura, quando si ostenta lo status sociale del personaggio che nei suoi ritratti diviene un codice visivo.

PERCHÈ MORONI È INNOVATIVO NELL’ARTE DEL RITRATTO?

Giovan Battista Moroni
Ritratto di Gian Gerolamo Grumelli (Il cavaliere in rosa)
1560
Olio su tela, 216 x 123 cm, Collezione Lucretia Moroni in concessione al FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano
Photo credits: Foto Studio Da Re © 2021 FAI- Fondo per l’Ambiente Italiano

Moroni coglie l’istante nell’espressione del volto, nelle posture, nel gesto e nello sguardo dall’espressione sorniona, quasi sfrontata dei suoi personaggi, come per esempio si nota nel Ritratto di Gabriel de la Cueva (1560) e nel Ritratto di vecchio seduto con libro (1576). Sul piano compositivo il pittore bergamasco supera il ritratto frontale, sembra cogliere il momento in cui il pittore instaura una conversazione con il personaggio dipinto dal vivo su sfondi grigi con effetti chiaroscurali modernissimi. Guardandoli noi diventiamo complici di un fitto interloquire che non udiamo ma immaginiamo.

La sua capacità d’indagine psicologica nei ritratti va oltre lo sguardo, i dettagli dei costumi, tessuti e oggetti che rivelano la professione del soggetto rappresentato, come nel caso del Sarto concentrato nel suo lavoro, sul gesto, sulle mani, espediente che rende ancora “reali” i personaggi ritratti. Moroni, rispetto a Lotto, porta l’arte del ritratto alla sua massima espressività comunicativa. Il suo orientamento naturalistico in particolare nel ritratto, si pensi ad esempio il Ritratto di Gian Gerolamo Grumelli (Il cavaliere in rosa), del 1560, trova le sue radici nella scuola lombarda, in particolare nei ritratti di Giacomo Ceruti; una caratteristica esplorata da Giuseppe Carnovali, detto il Piccio, geniale pittore dell’Ottocento, nato ad Albino come Moroni.

Le austere e composte pale d’altare ci appaiono anacroniste rispetto alla sua capacità di giochi d’ombra e di assoluta maestria nell’arte del ritratto “naturale”, così sfrontato, di uomini e donne giovani e non, esponenti dell’aristocrazia bergamasca, sontuosamente abbigliati, dotti, borghesi ambiziosi, immortalati tra profusione di nero, rosso, rosa, verdi e camicie dai colletti bianchi cangianti, si entra nel vivo del tardo Rinascimento, nello spaccato di vita bergamasca all’insegna della ostentazione compiaciuta del potere e del lusso.

SAN PROTASO IN LUCE – CICLO DI MOSTRE DI LIGHT ART A MILANO. FACCIAMO LUCE SULL’OPPORTUNITÀ D’INCLUSIONE E DI INTEGRAZIONE CON L’ARTE

Emanuele Alfieri
Music and colors range
Photo courtesy Nino Alfieri

A Milano nel minuscolo Oratorio di San Protaso, poco distante dalla caotica piazza Napoli, la chiesetta incastonata nello spartitraffico di via Lorenteggio, che risulta edificata intorno all’anno 1000, sopravvissuta  alle guerre, alla speculazione edilizia e al vicino cantiere della metropolitana, già luogo d’incontri cultuali nel quartiere, per la prima volta ospita un ciclo di mostre di Light Art, ideato e curato da Nino Alfieri con la collaborazione di Paola Barsocchi, Marco Brianza, Paolo Calafiore, Pietro Pirelli, Sebastiano Romano e Massimiliano Viel.

Il 13 gennaio è stata inaugurata la rassegna di Light Art con il Timone Cosmico navigare seguendo la Luce di Nino Alfieri e a rotazione seguiranno Emanuele Alfieri, Marco Brianza, Paolo Calafiore, LeoNilde Carabba, Cristiana Fioretti, Kaneko Studio, Massimo Hachen, Pietro Pirelli e Sebastiano Romano. Tutte le mostre – a ingresso libero – aperte al pubblico venerdì – sabato – domenica dalle 18 alle 21, fino al 31 marzo, sono accompagnate da interventi musicali di Massimiliano Viel, Corrado Saija, Giorgio Presti, l’ensemble polifonica di musica antica Atti Soavi e la voce narrante di Kate Varrey.

Marco Brianza con l’evocazione cromatica luminosa delle prime vetrate gotiche di Saint Denis fa un salto temporale e di atmosfera nella chiesetta romanica di San Protaso.
Photo courtesy Nino Alfieri

Il progetto San Protaso in Luce valorizza la funzione dell’arte nel sociale, come opportunità di creare inclusione e integrazione tra artisti, luogo e fruitori a servizio della comunità. In particolare il gruppo di artisti, esponenti della Light Art italiana che hanno condiviso diverse mostre e tanto altro ancora, per San Protaso hanno ideato opere e installazioni site-specific in dialogo con la preziosa architettura, in cui gli interventi musicali avranno un ruolo catartico determinante.

Vedrete oggetti, sculture, quadri dipinti con luce fosforescente, costellazioni luminescenti, istallazioni a luce intermittente, volumi illuminanti, evocazioni cromatiche, ascolterete voci e suoni ispirati all’Oratorio di San Protaso, incentrati sul valore spirituale dell’arte; quasi modelli esistenziali per elevarsi dal quotidiano e riflettere sul mistero dell’infinito.

Paolo Calafiore
LUX ET SILENTIUM
Installazione di Luce site specific in occasione del ciclo di mostre San Protaso il Luce.
Photo courtesy Nino Alfieri

La Luce nell’arte sprigiona energia vitale, che inevitabilmente apre riflessioni sulla spiritualità, è il segno indicale dell’invisibile, materia fluida dell’immateriale che si fa oggetto, spazio e immagine capace di creare esperienze di percezioni diverse, ambienti in cui condividere luoghi e persone, dove conoscere e riconfigurare sempre nuovi punti di vista su qualcosa per qualcuno, come promessa di speranza di un futuro migliore.

 

 

Perché la Light Art illumina processi di cambiamento sociale?

LeoNilde Carabba, 2020 , La grande Ruota , Omaggio a Ishstar.
Acrilici, fluorescenti, fosforescenti e foglia d’argento su tela 100 x 150 cm.
Photo courtesy Nino Alfieri

La Light Art include simbolo, poetica, tecnologia e trasformazione, fa leva sul coinvolgimento emotivo del fruitore in relazione al contesto, provoca un cortocircuito di alterazione spaziale e temporale che annulla la distanza tra passato e presente, interno ed esterno, individuale e collettivo, configurando una zona neutra di passaggio tra reale e immaginario. Soprattutto la Light Art non si racconta, ma si vive come dispositivo esperienziale, dove si superano gerarchie e barriere culturali, e tra tecniche e generi espressivi diversi.

 

Light Art ai margini di Milano al confine con l’infinito

Cristiana Fioretti
LIGHTness, tecnica mista su acetato e tecnologia LEC (Light Emitting Capacitor), cm 100×70
Photo courtesy Nino Alfieri

L’arte non cambia il mondo, sappiamo che da sempre documenta l’evoluzione dell’uomo, instaura una relazione tra inganno percettivo e verità, tra noi e gli altri, un dentro e un fuori. In particolare la Light Art   in San Protaso mette in evidenza processi di collaborazione tra gli artisti che operano per la comunità, in un luogo carico di storia, memoria e simboli, come promessa di collaborazione, accoglienza, cura e comprensione di tutto ciò che diverso da noi. È un progetto pensato per la comunità, calato nel territorio, sviluppato in dialogo con gli abitanti e comitati del quartiere di Lorenteggio, partendo dal presupposto che l’opera non è una monade, né tantomeno una sterile celebrazione dell’artista, ma è sempre relazione umana, basata sullo scambio vitale, sugellato dalla luce, simbolo di vita, verità, nascita e conoscenza transazionale, in cui noi tutti siamo la società.

Tutti gli artisti lavorano per la collettività, seppure ognuno a suo modo, accomunati dalla luce, inscenano mostre personali che tutte insieme diventano corali, affiancate dalla musica come cura e terapia contro la cupezza del nostro tempo, complesso, drammatico, ma anche carico di magia come la Light Art sa creare.

Le opere di Light Art esposte in questa occasione ci portano dentro un luogo suggestivo di Milano, confinato ai margini del centro, aperto a riflessioni sul mistero del cosmo, dentro noi stessi per riflettere sul valore sacrale dell’arte, come strumento di meditazione in un luogo che abbraccia la comunità.

 

Buon viaggio Giovanni Anselmo! Si è spento a Torino un astro dell’Arte Povera carico di energia cosmica

Si è spento a 89 anni Giovanni Anselmo, nato a Borgofranco d’Ivrea il 5 agosto 1934, pittore autodidatta, dal 1967 tra i fondatori e protagonista dell’Arte Povera, movimento di avanguardia storica teorizzato da Germano Celant. Giovanni Anselmo è noto a livello internazionale per la sua poliedrica produzione che spazia dall’installazione, alla pittura e alla fotografia, fino all’ultimo intervento di Light Art intitolato Orizzonti, realizzato in occasione della nuova edizione di Luci d’Artista, inaugurata a Torino il 27 ottobre scorso.

Giovanni ANSELMO – Orizzonti – Piazza Carlo Alberto – Nuova Luce 26° edizione di Luci d’Artista a Torino. Photo Claudio Pastrone, Courtesy FIAF

L’installazione Orizzonti comprende quattro luci di colore blu che riportano i nomi dei quattro punti cardinali (Nord, Est, Sud e Ovest), in cui tutte le luci sono visibili contemporaneamente dal centro di Piazza Carlo Alberto, con l’obiettivo di permettere ai passanti di orientarsi, cercando  la propria direzione nello spazio. Anselmo, indicando i punti cardinali a partire dal centro esatto della piazza, crea una relazione tra un luogo specifico di Torino carico di storia e significati, con uno spazio mentale più ampio, superando idealmente gli orizzonti della città.

L’arte è una questione di percezione soggettiva e qualsiasi fruitore, passando da qui, inevitabilmente avrà la possibilità di varcare i confini dello spazio fisico, seguendo il proprio orizzonte. L’installazione è pensata per creare un effetto leggermente disturbante da provare attraversando la piazza e non da raccontare, in cui attraverso la luce rende visibile l’invisibile. Questa luce è un omaggio alla sua Torino, dove l’artista ha vissuto e lavorato e ha esordito nella galleria di Gian Enzo Sperone con altri artisti della sua generazione e amici come Giuseppe Penone, Gilberto Zorio, Mario Merz e Michelangelo Pistoletto. Da allora ha partecipato a una serie di esposizioni dedicate all’Arte Povera in Italia e nel mondo, da Parigi a New York.

Dopo varie mostre, Anselmo supera i limiti della pittura dal 1967, quando mostra un catalizzatore di energia con Torsione (1968), una installazione composta da un panno di fustagno mantenuto attorcigliato da una barra di ferro, il cui il movimento è bloccato dalla parete. Visibile e invisibile, contrapposizione tra elementi poetici e scientifici, energia cosmica e naturale, gravità, equilibrio precario, sono tematiche ricorrenti nelle sue opere.

Dell’artista sono note le opere Senza Titolo (Struttura che mangia), un cespo di lattuga trattenuto tra due blocchi di granito, in cui si mostra il processo di entropia, e Neon nel cemento (1967-1969). Quest’ultima è costituita da quattro tubi al neon, collegati a un circuito elettrico, cementati dentro ad altrettanti blocchi in calcestruzzo posati a terra, in cui la luce diventa dispositivo di tensione e materiale concettuale e poetico insieme come strategia di superamento dell’espressività tradizionale, invitando lo spettatore alla percezione di spazi mentali oltre il limite dei confini del sensibile in relazione con l’invisibile: l’energia e la pulsione dell’arte.

Sono indimenticabili le sue opere in granito degli anni ’80 Grigi che si alleggeriscono verso oltremare e Verso oltremare, che aprono riflessioni sull’infinito. Nel 1990 gli è stato assegnato il Leone d’Oro per la pittura in occasione della Biennale di Venezia, nel 2016 il Castello di Rivoli ha ospitato una sua importante mostra personale e, nella primavera del 2024, il museo Guggenheim di Bilbao (Spagna) gli dedicherà una mostra antologica.

LA SALA DEL CENACOLO AL MUSEO NAZIONALE SCIENZA E TECNOLOGIA LEONARDO DA VINCI A MILANO: IL NUOVO RESTAURO È UN’OPERA D’ARTE

La Sala del Cenacolo è l’antico refettorio dell’affascinante complesso del monastero Olivetano di San Vittore del XVI secolo, trasformato dal 1806 in ospedale militare e poi in caserma e dal 1953 sede del Museo della Scienza e Tecnologia, dove si trovano straordinari affreschi e stucchi di Piero Gilardi (1677 – 1733) e Giuseppe Antonio Castelli, detto il Castellino (1655 circa – 1724), considerati tra le rare testimonianze del Barocchetto lombardo. Due pittori noti dell’epoca che consolidarono la loro collaborazione anche per la decorazione della cappella del Duomo di Monza e di altre chiese.

Il team di restauro al lavoro sull’affresco di Pietro Gilardi, 2023
photo © Elena Galimberti

Fino a un mese fa questa sala, costruita tra il 1709 e il 1712 in occasione dell’ampiamento del Monastero, appariva cupa e spenta. In seguito all’eccellente restauro conservativo e innovativo al tempo stesso, a cura di Vanda Franceschetti e Matteo Pelucchi e una affiatata squadra di restauratori, promosso dall’Osservatorio sul Patrimonio Scientifico e Tecnologico del  Museo, gli affreschi sono stati riportati alla luce originale e tutto è più leggibile e fruibile, dettagli inclusi.

Colori chiari e luminosi, quadrature dall’originalità compositiva straordinaria, l’impostazione teatrale delle Nozze di Cana, dove l’episodio del primo miracolo di Gesù viene relegato sul fondo,  privilegiando il banchetto mondano e fastoso in primo piano: tutto oggi risplende anche grazie a un nuovo impianto  di illuminazione realizzato con Erco, studiato ad hoc per valorizzare la bellezza degli affreschi che rimandano al Settecento, ma informano sul rapporto sempre sinergico tra architettura, pittura e illuminazione.

Veduta d’assieme della Sala Cenacolo dopo il restauro
photo © Andrea Fasani

Dopo il Cenacolo di Leonardo, con il Cenacolo del Museo Nazionale Scienza e Tecnologia che rappresenta le Nozze di Cana, un maestoso affresco ospitato sulla parete di fondo della sala dipinto da Gilardi, Milano si arricchisce di un altro capolavoro, una chicca architettonica, nota soprattutto ai milanesi, dove proprio in questa sala (vasto rettangolo lungo 23,50 e largo 11) hanno partecipato a concerti e convegni. Oggi, dopo il restauro la stessa è destinata a diventare un’attrazione internazionale incastonata dentro a chiostri di ispirazione bramantesca di rara bellezza.

Attraverso un intervento di consolidamento, pulitura e integrazione pittorica, sono visibili i dettagli decorativi e le dorature offuscate dalla patina del tempo. Il restauro è stata l’occasione per rivelare nuove informazioni relative ai materiali costitutivi originali e ai processi di degrado in rapporto al precedente restauro datato 1952, l’anno in cui l’ex monastero viene riadattato per ospitare il Museo.

Dettaglio della Sala Cenacolo dopo il restauro
photo © Andrea Fasani

Il restauro è uno dei monumenti più significativi per la conoscenza dell’opera d’arte – ha commentato Vanda Franceschetti -. La decorazione della sala, realizzata all’inizio del 1700 da Pietro Gilardi e Antonio Castellino, si è rivelata, dopo le necessarie operazioni di pulitura, stuccatura e riequilibratura cromatica, in tutta la sua qualità luministica e materica. La pittura barocca, appesantita dalle numerose patinature subite nel corso dei vecchi autorevoli restauri, ha recuperato i suoi valori cromatici e le sue raffinate caratteristiche decorative fatte da eleganti dorature a missione, ombre profonde e vellutate, rilievi materici che sfondano la bidimensionalità del contesto pittorico. Il grande affresco di Piero Gilardi domina la sala con i suoi drammatici controluce come quinta scenica di una rappresentazione teatrale. Le analisi diagnostiche hanno costituito il punto di partenza (1950 Ottemi Della Rotta ) e di arrivo (2004 cooperativa per restauro) per l’attuale restituzione”.

Dettaglio della Sala Cenacolo dopo il restauro
photo © Andrea Fasani

Dietro al restauro della Sala c’è una costante ricerca storica-artistica e architettonica intorno alle fonti archivistiche e documentali relative agli affreschi con la collaborazione dello storico dell’arte Stefano Bruzzese che, tra gli altri temi, sta studiano il programma iconografico della pittura  lombarda dei primi anni del Settecento, ancora tutto da esplorare e comprendere.

Varcata la soglia della Sala del Cenacolo, si resta a bocca aperta e si volge lo sguardo all’insù per l’effetto luminoso che gli affreschi irradiano nell’architettura. In particolare, seducono la volta ribassata e le pareti laterali che presentano una serie di articolate quadrature architettoniche con fiori, frutta e festoni e scene bibliche a monocromo tratte  dall’Antico Testamento, allusive al tema  del nutrimento per intervento divino. Tra gli altri dettagli, attirano lo sguardo quattro figure femminili sulla volta su sfondo di stucco dorato, dipinte da Gilardi, in cui si riconoscono allegorie di Temperanza, Mortificazione, Meditazione e Caducità della vita, accarezzate da una luce “divina”.  Di Giliardi sono anche il busto della Vergine raffigurato sopra il pulpito, sulla parete opposta, e la figura di donna che invita a rispettare il silenzio.

Dettaglio della Sala Cenacolo dopo il restauro
photo © Andrea Fasani

Fiorenzo Marco Galli, direttore generale del Museo, ha  dichiarato: “Questo restauro è  particolarmente significativo nel percorso di cura del patrimonio architettonico del Museo che abbiamo intrapreso nel corso degli anni. Restituisce la storia e la bellezza di questa sala importante. La Sala ha ospitato convegni, conferenze, concerti come parte integrante della nostra attività culturale, rendendo il Museo un luogo vivo di incontro e confronto. Ringrazio per aver reso possibile questo progetto il generoso contributo di Fimesa e della famiglia Sordi, in memoria di Roberto e Silvio Preti”.

Restauro a parte, questo intervento architettonico ci permette di comprendere meglio la storia del Museo stesso, partendo dalle sue origini con la Sala del Cenacolo che nel corso del tempo ha rappresentato un centro di vita culturale di una istituzione in dialogo con i cittadini, il territorio, aperta  alla musica  e a convegni internazionali.

ARTE E ALCHIMIA SI FONDONO IN “UNTRUE UNREAL”, LA MOSTRA DI ANISH KAPOOR A FIRENZE

Sala 1, Svayambhu, 2007, cera, vernice a base di olio. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Tutta l’arte è finzione, per capirlo basta il titolo Untrue Unreal (non vero e non reale), scelto per la sua mostra monografica a Palazzo Strozzi a Firenze da Anish Kapoor, maestro dell’impossibile che ha superato il confine tra pittura e scultura, plasticità e immaterialità, indagatore dell’ignoto e dimensioni sconosciute come nessun’altro e che ha rivoluzionato l’idea di scultura nell’arte contemporanea.

Anish Kapoor (Mumbai, 1954) si trasferisce a diciannove anni a Londra dove diventa, insieme ad artisti quali Tony Cragg e Richard Deacon, il protagonista del rinnovamento della scultura britannica degli anni ’80. La sua ricerca si sviluppa intorno ai temi dello spazio e della percezione del vuoto con valenze spirituali legate alle filosofie orientali. Dopo il successo alla Biennale delle Arti Visive di Venezia (1990), si afferma come star internazionale.

Sala 3, Endless Column, 1992, tecnica mista, pigmento. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

L’artista – alchimista trasporta l’oggetto nella quarta dimensione e ha inventato un materiale tecnologico più nero di un buco nero, in grado di assorbire il 99,9 per cento della luce. L’inverosimile si fa reale con le sue opere specchianti o di cera rossa calda, fredda, flessibile, solida, amorfa e polimorfa, in cui psiche e materia coesistono.

La mostra Untrue Unreal, a cura di Arturo Galansino, propone un confronto diretto tra l’artista e l’edificio simbolo della cultura rinascimentale fiorentina, attraverso una mirata selezione di sculture e installazioni realizzate dagli anni ’80 fino ad oggi. Inizio e fine del percorso è Void Pavilion VII (2023), il nuovo ambiente site specific concepito per il cortile interno del Palazzo Strozzi che, insieme alle altre opere, traccia un percorso omogeneo delle ricerche di Kapoor relative a processi di trasformazione che mettono in discussione la nostra percezione.

Il viaggio dentro l’imperscrutabilità del vuoto incomincia al Piano Nobile con Svayambhu (2007), monumentale blocco di cera rossa, opera “autorigenerante” che plasma la sua materia informe nel rapporto con l’architettura e pone una riflessione dialettica tra vuoto e materia. Lo stesso discorso vale per Endless Column (1992), grande colonna omaggio alla scultura La colonne san fin (1937) di Costantin Brâncuși, che sembra oltrepassare il soffitto della terza sala e traforare il pavimento di Palazzo Strozzi. La colonna, irrorata di un pigmento brillante, mostra corporeità architettoniche inverosimili.

Sala 4, Non-Object Black, 2015. Untitled, 2023, resina, vernice. Dark Brutal, 2023, tecnica mista, vernice. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Nella quarta sala fagocitano lo sguardo la serie delle black works (opere nere), Non-Object Black (2015), realizzate in Vantablack, materiale innovativo in nanotubi di carbonio in grado di assorbire più del 99,9% della luce visibile e rendere invisibili i contorni di un oggetto. Il suo nero mette in discussione l’idea stessa dell’oggetto, annulla la terza dimensione, invitando lo spettatore a riflettere sulla natura dell’essere e non soltanto sulla natura degli oggetti permeati d’immaterialità, come si vede in Dark Brutal (2023) e Untitled (2023). I suoi frammenti di vuoto, “proto-oggetti”, come l’artista ha definito queste sculture ready-made dell’immaterialità, in cui la gestazione dell’assenza è l’opera stessa.

Sala 5, Gathering Clouds, 2014, fibra di vetro, vernice, cm 188 × 188 × 39 ciascuno. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Nella quinta sala, con Gathering Clouds (2014) continuiamo a fare esperienza del “non-oggetto”, insolite “nuvole che si addensano” composte da quattro monocromi concavi in cui specchio, vuoto e colore assorbono lo spazio circostante in una oscurità meditativa o in una distorsione riflessiva. Il concetto di confine e dualità tra soggetto e oggetto sono temi centrali della ricerca di Kapoor nelle sculture specchianti come Vertigo (2006), Mirror (2018) e Newborn (2019), grandi sculture che sembrano sconvolgere le leggi della fisica ospitate nella settima sala, che riflettono, deformano, ingrandiscono, riducono e moltiplicano lo spazio circostante, creando una situazione destabilizzante per lo spettatore che in esse si specchia. Sulla scia di sculture specchianti di grande impatto scenografico, chi è stato a Chicago al Millennium Park ha potuto ammirare la Cloud Gate (2004) che però tutti chiamano The Bean perché assomiglia a un enorme fagiolo specchiante (10×13 m). Si tratta di una tra le sculture pubbliche più instagrammate al mondo e considerata dai critici tra i migliori esempi di arte pubblica contemporanea.

Sala 7, Vertigo, 2006, acciaio inossidabile, cm 225 × 480 × 60. Mirror, 2018, acciaio inossidabile, cm 195 × 195 × 25. Newborn, 2019, acciaio inossidabile, cm 300 × 300 × 300. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Tornando al percorso espositivo della mostra fiorentina, nell’ultima sala del Piano Nobile ci addentriamo nell’esplorazione nel territorio del verosimile con Angel (1990). È una installazione di grandi pietre di ardesia ricoperte da numerose mani di intenso pigmento blu di Prussia, davvero magnetica, composta da massi che sembrano solidificare l’aria, frammenti di meteorite di cielo, solidi ed evanescenti al tempo stesso, che sarebbero piaciute a Yves Klien e che materializzano processi di cambiamento della materia.

Sala 8, Angel, 1990, ardesia, pigmento. ©photoElaBialkowskaOKNOstudio

Accessibile a tutti è il Void Pavilion VII (2023), al centro del cortile di Palazzo Strozzi, dove lo spettatore è invitato a immergersi in un vuoto cosmico e misterioso, uno spazio della meditazione da vivere in maniera soggettiva in un pozzo di ignota oscurità. Qui, risucchiati dall’imperscrutabilità del passato e del futuro, di reale c’è soltanto l’esperienza del presente, di qualcosa di simile o inverosimile al tempo stesso impossibile da raccontare. Per Kapoor pigmento, pietra, acciaio, cera, silicone e altri materiali trascendono la loro materialità; tutto si manipola e nulla è come appare. Nel suo lavoro, alchimia e materiali tracciano dimensioni plastiche dalla sorprendente tensione spirituale ed estetica.

VIAGGIO DI LUCE. CLAUDIO PARMIGGIANI – ABEL HERRERO. UN PROGETTO DI MUSEO NOVECENTO A CURA DI SERGIO RISALITI

Viaggio di luce, Claudio Parmiggiani, Abel Herrero. Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi. Foto Antonello Serino

Il tempo che passa produce ansia, l’iperattività e lo sconforto di un presente complesso e belligerante porta allo scontento e all’autodistruzione, la superficialità della comunicazione in rete svuota di contenuto le relazioni umane e in questo flusso caotico e annichilente il rimedio è nella contemplazione riflessiva dell’arte, il saper guardare opere che inducono al viaggio oltre la banalità del reale, sperando di approdare nell’immaginario di una terra incognita e misteriosa.

Questo è il suggerimento della mostra Viaggio di Luce, un progetto espositivo che accomuna per la prima volta le opere di Claudio Parmiggiani e Abel Herrero, ideato dal Museo Novecento, promosso da Città Metropolitana di Firenze, a cura di Sergio Risaliti e organizzato da MUS.E e Associazione Kontainer, esposto nella Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi (fino al 21 gennaio – ingresso gratuito).

Viaggio di luce, Claudio Parmiggiani, Abel Herrero. Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi. Foto Antonello Serino

A Palazzo Medici Riccardi si incontrano di nuovo il pittore italiano di origine cubana Abel Herrero e Claudio Parmiggiani. Dopo una collaborazione artistica iniziata nel 2006 a Cuba, a Firenze si rinnova la condivisione del progetto espositivo di opere diverse dei due artisti, accomunati da sensibilità poetica e innesti tra pittura e scultura, luce e ombra, vuoto e pieno, come forma di perfezionamento dell’interiorità. Parmiggiani,  con la mostra personale Silencio a voz alta (2006), è stato il primo artista italiano a esporre al Museo Nazionale di Belle Arti all’Avana, Cuba, all’interno del progetto Pensatori Ospiti, a cura di Abel Herrero.

Nell’austera Galleria delle Carrozze, nell’area del centro storico di Firenze dove sorge il Palazzo Medici Riccardi, gli scavi hanno dimostrato che scorreva un fiume, e qui quattro grandi barche di Claudio Parmiggiani (1943), adagiate sul pavimento ricolme di polveri di colori diversi, rosso, giallo, blu e verde, danno materialità alla speranza di un viaggio verso la luce. I suoi pigmenti trasudano di immaterialità, sembrano luccicare e rappresentano la quintessenza della pittura. Alle pareti catturano lo sguardo otto grandi tele monocrome di Abel Herrero (1971), “manifesti” cromatici di mari verdi acidi, ma luminosi com’è la speranza di un futuro migliore. I suoi gialli sono abbacinanti, i blu profondi come gli abissi insondabili dei notturni cosmici, il rosso sangue è cruento e dionisiaco, poi c’è il nero tenebroso che cela il sonno della ragione e illumina l’origine della luce.

Viaggio di luce, Claudio Parmiggiani, Abel Herrero. Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi. Foto Antonello Serino

Tutto intorno è silenzio che reca grazia, riflessione, meditazione. Herrero con l’energia lirica e astratta della pittura rigenera in chiave contemporanea il classico soggetto della veduta marina, in cui si evoca la condizione umana, mentre le barche di Parmiggiani, incarnano la metafora del viaggio fisico e metafisico. Nella navigazione metaforica in questa vita, tumultuosa, contraddittoria e pericolosa, le opere esposte ci invitano a pensare a nuovi orizzonti, a proseguire il nostro percorso dentro una immersione pittorica, in cui l’invisibile si fa visibile, dove il naufragio nella luce è una opportunità di rigenerazione.

In questo progetto a quattro mani c’è una soluzione trascendente nella vita terrena. Guardare e ripensare il tempo e lo spazio con queste opere, che trasudano di tensione spirituale, a partire dalle polveri nelle barche per culminare nei monocromi aniconici, l’assenza si fa presenza di luce, in cui il nostro sguardo segue un viaggio immaginario dentro il colore. Scrive Sergio Risaliti: “Per Herrero e Parmiggiani non c’è altra via, altro esercizio, che l’esperienza della contemplazione, senza la quale non c’è possibilità di fare luce, di approdare alla verità del reale verso il nulla, verso l’oscurità e il vuoto, solo per fare luce al linguaggio, per accedere alla verità poetica della cosa, per aprire un varco  verso la Lichtung. Parmiggiani e Herrero considerano all’unisono l’immersione contemplativa nella pittura come esperienza diametralmente opposta  a ogni forma di comunicazione, come forma di resistenza alla dissipazione del linguaggio nel chiacchiericcio di cui parla Heidegger”.

Viaggio di luce, Claudio Parmiggiani, Abel Herrero. Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi. Foto Antonello Serino

Se la vita è l’affanno, l’arte è l’inganno che cerca il piacere dei sensi. Arte come confessioni di enigma della percezione – fuga mundi intra mundi? La luce nel colore spalanca il nostro sguardo sull’infinito tanto nella barca quanto nei monocromi in cui l’homo viator nella luce trova il simbolo della ricerca spirituale. E il nostro sguardo pellegrino (che deriva da peregrinare, muoversi con inquietudine, senza tregua, ma anche condurre al termine), nel suo significato contiene l’estraniamento e lo spaesamento.

Essere e non essere, certezza e instabilità, luce e ombra, vita e morte, realtà e apparenza, riflessione e tormento, dannazione ed estasi, ragione e immaginazione. In questo “viaggio” dentro a dualismi possibili e  di coppie oppositive si inscenano metafore e inganni visivi, oscillazioni tra qui e l’altrove, tra uno spazio definito e un territorio infinito in un corpo a corpo tra luce e spazio per naufragare in una catartica ascesa interiore.