Suono e luce scolpiscono e deformano il corpo e il linguaggio: la Bèrènice di Jean Racine rivista da Romeo Castellucci

“Tre sorelle”. Intervista a Claudia Sorace e Maria Elena Fusacchia

“IO, VINCENT VAN GOGH” DI CORRADO D’ELIA IN SCENA AL TEATRO LEONARDO DI MILANO

Corrado d’Elia in “Io, Vincent Van Gogh”
Photo © Sara Meliti

Entri e il sipario è aperto. Sul palco si spalanca un campo di grano color dell’oro e del bronzo, appena arato, come squassato dal vento, con un solco che lo taglia in mezzo, come una ferita. È posta una semplice sedia, un cielo blu. In sala si sentono i grilli, il fruscio del vento, il frinire di cicale. Così, come entri e ti accomodi, sulla poltrona, già cominci a entrare nel mondo, nell’anima di Vincent. Buio, stacco musicale un po’ violento, aggressivo, luce… Ed eccolo Corrado d’Elia/Vincent Van Gogh seduto sulla sedia.  “Dipingere è come arare un campo di grano. E l’emozione è così forte, così impulsiva, così antica, che quasi non sento la fatica”. E inizia il viaggio, come una ballata poetica, nella vita di Vincent, in quel mistero che sta dentro la sua anima “ad asciugare”, al sole, con quella passione viscerale per l’arte (“ho bisogno dei colori come fossero cibo, mi nutro di arancio, di blu, di verde”). Attore, regista, sceneggiatore, Corrado d’Elia mette in scena al Teatro Leonardo di Milano (fino al 24 marzo) uno spettacolo di rara intensità, dedicato a uno dei più celebri e mitizzati pittori di tutta la storia dell’arte: Io, Vincent Van Gogh.

“C’è qualcosa in lui che tocca una corda universale, che coinvolge tutti. I suoi quadri sono dentro di noi, Tutto il mondo conosce la vita e le opere del grande pittore (in tutta la sua vita ha venduto un solo quadro per trenta franchi! Oggi è l’artista più pagato alle aste) e in tanti hanno provato a scriverne, nel cinema e anche in teatro. Com’è possibile dunque sorprenderci ancora? Come restituire al pubblico l’intensità, le emozioni che l’opera di questo artista suscita in noi? Come restituire al pubblico qualcosa di diverso da quello cui è abituato? Sapevo con esattezza quello che non volevo fare: una lezione teatrale, spiegare, descrivere, commentare, proiettare immagini di quadri o interpretare davvero come attore in prima persona il personaggio di Van Gogh”, spiega Corrado d’Elia.

LO SPETTACOLO TEATRALE

Corrado d’Elia in “Io, Vincent Van Gogh” Photo © Sara Meliti

Solo in scena, seduto per tutto il tempo su un palcoscenico che rimanda ai gialli campi di grano, così amati da Van Gogh, (“Questo campo di grano, questo eterno ondeggiare per sempre sarò io”), Corrado d’Elia incarna il corpo di Vincent. Un lavoro attoriale di compenetrazione, di immedesimazione (“il teatro si fa carne”, dice d’Elia) per svelare un Vincent inedito. L’uomo, ancora prima del pittore. Con la potenza di un testo poetico (meritoriamente risultato vincitore della XVII edizione del Concorso Europeo per il Teatro e la Drammaturgia Tragos per la Sezione Autore Contemporaneo.) Nessun dipinto, nessuna traccia visiva dell’arte di Vincent. La scenografia implode in pochi elementi, ma di grande suggestione, e il disegno luci della brava Chiara Salvucci (architetto, scenografo, attrice) è fatto di pennellate luci, dense di colore, striate di rosso e di verde e di blu, in complementare equilibrio con la parola detta carica di lirismo, in un succedersi di violenti e improvvisi cambi di luce: dal blu cobalto scuro di vorticosi cieli nella notte stellata, al giallo dei girasoli e dei campi assoltati. Nel profondo buio, l’accendersi di una lampadina può evocare gli interni in penombra e i volti dei famosi mangiatori di patate. Stanchi, sfiniti, le mani nodose.

Il monologo prende vita come davvero fosse la pittura di un quadro. Un emozionante serrato flusso emotivo, dai toni più delicati a quelli più accesi, che pare comporsi via via, davanti a noi, a grandi pennellate, le parole come scie vorticose che si inseguono entro cieli dal blu intenso, a turbarci, commuoverci. La nascita, segnata, quasi fosse il presagio di un futuro difficile, dalla morte del fratello (da cui eredita il nome Vincent), avvenuta esattamente un anno prima della sua venuta al mondo. Gli anni di Parigi, il rapporto epistolare col fratello Theo, la vita ad Arles, l’amore dolce e disperato per Sien, l’amicizia travagliata con l’artista Gauguin, il manicomio e in ultimo quell’urlo agghiacciante. “Io vi supplico, spegnete il sole, vi prego, spegnete la luce, lasciatemi riposare… Vincent il dannato, il reietto è caduto, si è schiantato, è perduto”. Nel silenzio repentino e spiazzante di un cambio di luci, in questo urlo sprofondiamo anche noi, all’improvviso. Vincent/d’Elia si raggomitola in una buca di letame e si spara un colpo di pistola al fianco. Quell’urlo e quello sparo risuonano ancora dentro di noi.

MUSICALITÀ, EMOZIONI E LUCI IN MOVIMENTO: LA DIVINA COMMEDIA A TEATRO

La Divina Commedia
La città di Dite, demoni
Photo courtesy Ufficio Stampa

Le paludi, il fuoco delle fiamme e i ghiacci eterni dell’Inferno che intrappolano fra strida, lamenti e gemiti i dannati. Il soffio disteso degli zefiri, la luce limpida e serena delle albe e la nostalgia del crepuscolo che accompagna la salita sulla montagna della anime nel Purgatorio, fra canti, salmi e melodie. E infine l’irrompere della luce abbagliante alla scoperta dell’“Amor che move il sole e l’altre stelle”. Ritorna nei teatri, rivoluzionata e arricchita di nuovi personaggi, La Divina Commedia dantesca in versione Kolossal, raccontata con l’energia travolgente del musical, effetti tecnologici e proiezioni che dipingono la scena con quadri in 3D in continuo mutamento. L’appuntamento milanese è al Teatro degli Arcimboldi (dal 30 gennaio al 4 febbraio), per poi proseguire il tour (dal 13 al 25 febbraio) al Teatro Brancaccio di Roma, al Teatro Alfieri di Torino (dal 29 febbraio al 3 marzo) e al Teatro Politeama di Catanzaro (dal 7 al 9 marzo ). La regia è di Andrea Ortis che ne ha curato i testi insieme a Gianmario Pagano. Le musiche che vanno dal rock haevy metal al canto gregoriano e alla musica dodecafonica sono di don Marco Frisina, compositore e direttore di coro. La voce narrante di Dante adulto che ricorda se stesso e i suoi dilemmi è di un attore del calibro di Giancarlo Giannini. Scenografie di Lara Carissimi, coreografie acrobatiche di Massimiliano Volpini, proiezioni video di Virginio Levrio e luci di Valerio Tiberi. Tradotto in numeri: 8 cantanti-attori, 12 ballerini-acrobati, 50 componenti in troupe, 200 costumi di scena, 300 cambi luce, 70 scenari che si susseguono l’uno dopo l’altro a ritmo serrato e in cambi scena a vista con effetti immersivi 3D.

Doppia interista: al regista Andrea Ortis e al lighting designer Valerio Tiberi.

ANDREA ORTIS

Cosa offre una rilettura musicale al capolavoro dantesco?

La Divina Commedia, Dante
Photo courtesy Ufficio Stampa

Andrea Ortis: io credo che arricchisca l’opera di Dante, i cui versi già contengono musicalità, ritmo, emozioni e sentimenti. Questa messinscena aiuta, soprattutto i giovani, a entrare nell’aspetto emotivo della Commedia che spesso la scuola inaridisce. Tre grandi folli nello stesso scorcio di Medioevo cambiarono il mondo, Giotto operò la rivoluzione della pittura, Francesco la rivoluzione dell’anima e poi questo terzo genio, Dante, fondò l’identità italiana con la lingua volgare. Ma sappiamo anche che, spesso, questo “rapporto” con Dante si interrompe appena la scuola finisce. Ecco perché ho pensato che fosse una possibilità enorme proporlo in un linguaggio differente. Questa Divina Commedia è opera per tutti.

La modernità della Divina Commedia ?

È il racconto di un cammino straordinario alla scoperta di un senso. Ed esprime, dunque, anche il viaggio dell’uomo di oggi che vive spesso un “inferno” vero, immerso in una “selva oscura” di dubbi, valori in crisi che lo opprime e da cui vuole liberarsi, Dante racconta infatti qualcosa di universale. Come ricorda nei primi versi il poeta, “il cammin” non è soltanto della sua vita, bensì di “nostra vita”. Dante ha ritrovato la risalita dalla sua selva oscura personale capendo piano piano che il fine della vita è l’Amore. “L’amor che move il sole e l’altre stelle”. Dante interpella ognuno di noi: a che scopo ci alziamo ogni mattina? Ci viene anche ricordato che non c’è paradiso senza inferno, non c’è gioia senza dolore, non c’è l’estasi della creazione senza la tortura del dubbio. La mia preghiera personale è di ricordarmi sempre, nei giorni più difficili, quando magari l’ispirazione non arriva, che nessuna ascensione al cielo è possibile senza un viaggio nel fuoco, insieme alla paura che ne deriva. E la speranza.

Partiamo dalla musica

Monsignor Frisina, biblista e compositore, ha creato paesaggi sonori differenti, perché le tre cantiche hanno bisogno di “mood”, ossia di sensazioni diverse. L’Inferno ha le sonorità del rock delle chitarre elettriche e della musica dodecafonica con le sue note stridenti per esprimere quella lacerazione, la dissonanza, la ribellione dei dannati. La musica del Purgatorio non esprime più la passione, la disperazione, ma il desiderio di Assoluto, a volte anche lo struggimento per una malinconia, e riprende anche musiche che ascoltava Dante Alighieri, cioè il canto gregoriano; e infine in un Paradiso gioioso aria sinfoniche soavi ed eteree.

Qual è la luce dello spettacolo?

Potrei dire la bioluminescenza. Come quella della lucciole o del plancton che si muove sulla superficie dell’acqua. È la luce che abita nella vita. Le do anche un’altra immagine che è poi quella che mi ha ispirato: ha presente quando di colpo in una stanza buia entra un raggio di sole e allora vediamo i pulviscoli? Quelle sottilissime particelle che si trovano in sospensione nell’atmosfera c’erano anche prima, ma senza la luce non le vedevamo. Ecco, direi che questa è la traccia anzi, per meglio dire, l’impronta di tutto l’allestimento drammaturgico e di conseguenza ha guidato il set up illuminotecnico. La Divina Commedia è un viaggio verso la luce. E quel pulviscolo di luce lo troviamo quando diamo un senso alla nostra vita.

Come è stato reso con il progetto illuministico?

Il viaggio di Dante nella Commedia è caratterizzato da una progressiva intensificazione della luce. La presenza (o assenza) della luce plasma potentemente le atmosfere di ogni cantica fino al regno “che solo amore e luce ha per confine” (Par. XXVIII.54) e che Dante, così straordinariamente, riesce a raccontarci. Beatrice diventa di cielo in cielo sempre più luminosa. Le anime dei beati sono spesso indicate proprio con la parola luce. C’è luce anche nell’Inferno: una luce che fa male, è la luce dei riverberi della città del fuoco di Dite, la fiamma da cui è avvolto Ulisse. Ma il punto più profondo dell’Inferno, quello più vicino a Lucifero, è Bianco ghiacciato. La luce del Purgatorio è invece una luce reale perché, diversamente dall’Inferno che è dolore per sempre e dal Paradiso che è bene per sempre, è l’unica cantica che ha un tempo. È quindi una luce che nasce all’aurora e che tramonta la sera e che disegna il percorso giornaliero di Dante accompagnato da Virgilio. La luce del Paradiso è la luce che scalda e che arriva con un fine, una direzione precisa.

VALERIO TIBERI

Quattro domande a Valerio Tiberi. Il celebre lighting designer ha al suo attivo poliedriche esperienze che spaziano tra Opera lirica, Teatro di Prosa e Danza (Roberto Bolle & Friends). Suoi i disegni luci per moltissimi musical in Italia e all’estero, come Grease, Dirty Dancing, Ghost, Frankenstein Jr, Charlie and the Chocolate Factor. È Insegnante all’Accademia del Teatro alla Scala, vincitore nel 2015 e nel 2016 dell’Oscar Italiano del Musical per il miglior disegno luci.

La particolarità del disegno luci di un musical?

La Divina Commedia, Caronte
Photo courtesy Ufficio Stampa

Valerio Tiberi: è una luce che non sta mai ferma. In questo spettacolo abbiamo più di 300 cambi di luce in due ore. Una ripresa di quel tipo può creare una sorta di separazione emozionale, un’interruzione; la cosa bella che sono riusciti a creare nel musical, invece, è proprio quel colore che accompagna meglio gli spettatori. Luce, suono e balletto diventano un sistema comunicante, molto forte a livello emotivo. Ogni cambiamento di luce si muove sotto la ritmicità di performance spettacolari dei ballerini che dettano serrati cambiamenti emozionali, rendendo lo spettacolo più dinamico e intrigante dal punto di vista narrativo. Esaltato dall’energia del musicaI.  Anche un film non musicale, del resto, senza la colonna sonora perderebbe moltissimo. La stessa scena non funzionerebbe.

Il dettaglio di cui va più fiero?

La qualità del colore. L’obiettivo principale era di ottenere un equilibrio dinamico dell’illuminazione sulla scena, non solo dal punto di vista del ritmo, ma sulla sensazione generale.

Gli apparecchi illuminanti utilizzati?

Sono stati scelti apparecchi molto performanti, Sagomatori a testa mobile con sorgente LED Robe T1 Profile: versatilità, potenza, precisione e resa cromatica eccellente. Ma soprattutto questa tecnologia ci consente di creare un colore personalizzato, qualsiasi sfumatura di colore desiderata, insomma qualcosa di originale e di ricercato, sempre mantenendo inalterata l’omogeneità e la qualità del fascio luminoso. Con molte persone in scena risulta poi fondamentale il puntamento: quasi a pioggia da 3 mt di altezza, che tendenzialmente faccio partire dal centro palco toccando terra.

Schemi video e proiezioni. Quanto hanno condizionato?

Problemi nessuno. Anzi in questo setting credo che abbiano solamente aiutato. Le video proiezioni di grande formato creano situazioni di grande impatto visivo. E riusciamo a contestualizzare e a “sottolineare” e riprodurre scene più articolate, le cui atmosfere sono amplificate dagli effetti di luci. Insieme a una serie di flashback e di visoni oniriche a tal punto da non far più distinguere allo spettatore la realtà dalla finzione (la proiezione). Dal punto di vista tecnico, certo, abbiamo dovuto bilanciare la potenza della luce (per la visibilità dei video, appunto). E poi di volta in volta abbiamo dovuto scegliere angoli di incidenza che, con la pedana, non ostacolassero la proiezione.

MILANO OMAGGIA GIORGIO MORANDI: LA MOSTRA “MORANDI 1890 – 1964” A PALAZZO REALE

C’è una tensione silente in questa mostra e non smette di suscitare suggestioni e interrogativi: Morandi ti coglie di sorpresa. Le sue opere, così intimamente poetiche, illuminate da una luce impalpabile, ma vibrante, intrise di una serenità immobile e avvolgente hanno qualcosa di magico, ipnotico. Nella loro disarmante semplicità, bottiglie, caffettiere, tazze, portafiori e brocche perpetuano l’illusione di una realtà eterna nel mondo. Pittore ripetitivo? E invece no: non c’è un solo quadro uguale all’altro. Con un azzardo, potremmo dire che le sue celebri bottiglie sono le Variazione Goldberg della pittura. Variazioni di un tema che torna su se stesso (come l’opera per clavicembalo composta da Johann Sebastian Bach) in infinite variazioni impercettibili di forme, di tonalità, di disposizione nello spazio, dalle variabili combinatorie infinite. Con tocchi lentissimi di pennellate, senza urti né accelerazioni, “le cose” raffigurate con insistenza sulla tela sono tolte, messe, rimesse, spostate, inclinate, affiancate, di continuo riposizionate, contrapposte, nascoste le uno dietro alle altre, in un lavorio compositivo teoricamente senza fine – muovendole nella luce e nello spazio e nel silenzio. Il minimo spostamento crea un sussulto di luce, una suggestione che ci porta oltre il visibile.

Forse adesso sì riusciamo a “sentire” il segreto della “partitura” morandiana, posando lo sguardo sul suo mondo rarefatto e poetico che torna sempre uguale e sempre diverso, percorrendo  le 34 sale della mostra Morandi 1890 – 1964 (imperdibile, e l’aggettivo non sembri esagerato) con cui Milano omaggia il grande maestro della pittura del Novecento, allestita nelle sale di Palazzo Reale (fino al 4 febbraio 2024.) Una retrospettiva ampia e scrupolosa curata da Maria Cristina Bandera, storica dell’arte e tra le massime esperte dell’opera di Morandi, e che raccoglie circa 120 opere scandite lungo il percorso espositivo che segue un criterio cronologico, partendo dal periodo degli esordi in cui sono evidenti suggestioni di ambito cubo-futurista arrivando agli anni ‘50 con protagoniste assolute le celebri nature morte, fino alla smaterializzazione della materia con gli acquerelli dell’ultimo periodo, al limite dell’evanescenza.

Solitario ma non isolato. Morandi vive sempre nella sua amata Bologna fino al 1964, anno della sua morte, senza però mai distogliere l’attenzione dalla realtà culturale che lo circondava, informatissimo su tutto e aperto a nuovi contatti. Pochissimi viaggi, pochissimi spostamenti. Nella sua vita visita solo 5 città: Firenze, Venezia, Padova, Milano, Roma. Rinuncia a inviti a New York, Parigi, Berlino, Londra, L’Aja, Ginevra, San Paolo, dove vengono allestite mostre con le sue opere. “Si può viaggiare per il mondo e non vedere nulla. Per ottenere la comprensione non è necessario vedere molte cose, ma guardare attentamente ciò che vedi”. Morandi ha saputo guardare il mondo da una stanza della sua casa a Bologna in via Fondazza 36 (oggi Museo Morandi, generosissimo dono della sorella Maria Teresa alla città di Bologna nel 1993). Divisa in due: da una parte lui, dall’altra le sue tre sorelle, il suo studio in fondo a un corridoio. Un vecchio scrittoio, il cavalletto. Lì dormiva in un letto “alla turca” e dipingeva. Qui osservava, contemplava a lungo la luce (“lentezza meditata”, dirà Roberto Longhi della pratica artistica dell’amico Morandi) che proviene dall’unica grande finestra aperta sul cortile, una finestra-balcone a cui a volte si affaccia per guardare le sue rose e l’ulivo donatogli dall’amico milanese Lamberto Vitali (collezionista, è uno dei massimi esperti di incisione e di storia della fotografia). Luce che fa da tramite tra lui e le cose. Chiudeva gli scuri delle finestre per valutare la quantità di luce. Colorava le sue bottiglie (che sceglieva aggirandosi fra rigattieri e il mercatino del sabato alla Montagnola) prima di dipingerle. Leggenda vuole che, se stava dipingendo un quadro e non riusciva a finirlo con la luce su cui aveva avuto le sue percezioni cromatiche, il pittore lo metteva da parte per riprendere a lavorarci l’anno dopo, nello stesso giorno e nelle stesse ore.

Paziente sperimentatore di spazi, distanze, contiguità e slittamenti, Morandi era un ricercatore: della immaterialità del reale. Morandi ti coglie di sorpresa, come dicevamo. Perché il suo slancio pittorico non è urlato ma puro silenzio di forma, di luce e di colore, quei colori che non squillano, verdi pastosi, bianchi, grigi, neri e ocra. Il rosa confina con l’arancione chiaro che sfuma nel giallo e nel marrone. Colori tenui che l’occhio accarezza e l’anima si quieta nel percepirli, in una impaginazione raffinata dello spazio, immersa in un’atmosfera contemplativa nella quale il tempo sembra essersi fermato. Come quelli dei paesaggi di Grizzana, il paese sull’Appennino dove Morandi trascorreva i mesi estivi, e le sue 70 sfumature di verde (tante ne aveva contate l’artista). Pochi dipinti, come quelli di Giorgio Morandi, possiedono il dono del silenzio che chiude l’opera in un ordine assoluto, isolato dal caos senza senso del mondo. Una presenza delle cose discreta e solenne che si propaga nello spazio e si materializza tramite la luce. Oggetti quotidiani, a cui è restituita lentamente la luce dell’immortalità. Per sottrazione, Morandi raggiunge la profondità del reale. Per renderlo eterno. “Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose”,  dichiara l’artista stesso. Tolgono il fiato le ultime due sale della mostra che raccolgono le opere degli anni conclusivi, quando dagli anni ’50, sperimenta sequenze e minime varianti compositive e la fluidità e trasparenza dell’acquerello: opere sempre più intangibili, con effetti di un’inquietante sospensione temporale ed emotiva. La visione si fa progressivamente astratta, le forme sfumano, si fondono con gli sfondi bianchi da cui emergono. I colori si raffreddano e diventano sempre più irreali. La varietà delle cromie si riduce a un campionario ridotto di tinte, dal giallo paglierino al rosa chiaro, al grigio chiaro. Prevale l’ombra più della luce. Nella natura morta del 1963, nell’ultima sala di esposizione, i contorni si sfaldano e i vasi e le bottiglie si stringono gli uni alle altre, in uno spazio immobile, in cui s’intravede l’infinito (come scriveva Bernardo Bertolucci.) Anche le corolle dei fiori diventando pura astrazione. In cui perdersi. Vedere allora oltre lo sguardo, oltre l’apparenza. Echi di Assoluto vibranti nel segreto senza fine di uno stupore delle cose.

LA LUCE NELLA TRILOGIA DELLA CITTÀ DI K. IN SCENA AL TEATRO STUDIO MELATO DI MILANO: INTERVISTA A LUIGI DE ANGELIS

Trilogia della città di K., da destra Consuelo Battiston, Lorenzo Gleijeses.
Pohto ® Masiar Pasquali

Una fiaba nera. Nerissima. In un luogo e tempo dai confini labili, assediati della guerra. Un labirinto narrativo che ruota intorno alla vicenda di due fratelli gemelli, Lucas e Klaus, dalla loro infanzia crudele con la nonna strega fino all’età adulta della separazione e poi a un misterioso ritrovarsi. Una narrazione che sa abilmente mescolare presente e passato, verità e menzogna, sovrapponendo l’immaginato, il sognato e il vissuto, presenze e fantasmi, storie dentro le storie, facendo perdere il senso dell’orientamento allo spettatore. Klaus e Lucas sono veramente due gemelli o le due facce di una stessa persona? Forse tutto quel che abbiamo visto in scena era solo quanto immaginato (e scritto) in un romanzo di Lucas che ha cambiato nome una volta fuggito all’estero? Un groviglio di domande. Lasciando la porta aperta sull’interpretazione, “Non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio, sulla morte, sul dolore non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui”, dice Federica Fracassi, l’attrice che interpreta il ruolo della scrittrice, quando rientra in scena, per chiudere la storia, congedando i suoi personaggi.

Trilogia della città di K, Federica Fracassi.
Photo ® Masiar Pasquali

È andata in scena in prima assoluta al Teatro Studio Mariangela Melato del Piccolo Teatro di Milano (dove resterà in replica fino al 21 dicembre) la versione teatrale di la Trilogia della città di K., tratta dal celebre romanzo omonimo della scrittrice ungherese Ágota Kristóf. Un progetto dell’attrice  Federica Fracassi e della compagnia Fanny & Alexander (Chiara Lagani, autrice dell’adattamento teatrale e Luigi De Angelis che cura regia, scene, luci e video). In scena, oltre a Federica Fracassi, si muovono altri quattro attori, ognuno interpretando più personaggi: Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses. Bravissimi (un plauso a tutto il cast).

Un elemento distintivo dello spettacolo è sicuramente l’illuminazione: la capacità di creare con forme di luce, nell’essenzialità della messa in scena, in uno spazio quasi del tutto vuoto eppure pieno di così tante storie, lo spazio architettonico ed emozionale per ogni scena. Un apparato luci imponente: 34 cambi luminosi, 14 proiettori Svoboda, sagomatori, 27 schermi video. Alla consolle computerizzata  delle luci (sincronizzate con la traccia audio) Manuel Frenda, capo elettricista del Piccolo Teatro, sound design Mirto Baliani ed Emanuele Wiltsch Barberio. Abbiamo approfondito il discorso con Luigi De Angelis che ne cura la regia e le luci. Nato a Bruxelles nel 1974, De Angelis ha sempre posto il tema della luce e del suo utilizzo come strumento centrale del suo lavoro, nei contesti di un’attività artistica articolata e sicuramente eclettica sul piano dei linguaggi. È regista, scenografo, filmmaker, light e sound designer. Nel 1992 ha fondato a Ravenna, con Chiara Lagani, Fanny & Alexander, uno dei gruppi teatrali più radicali della sperimentazione italiana.

Perché la scelta della Trilogia ?

Nasce da una sorta di ossessione che io e Chiara, insieme a Federica, coviamo da tempo. Sono moltissimi gli aspetti che rendono questo romanzo terribilmente bello e affascinante, a partire dalla prosa per nulla facile della scrittrice. L’argomento drammaturgico è in partenza un materiale vulcanico in cui realtà e finzione si trasmutano senza posa l’una nell’altra, rispecchiandosi in maniera liquida e inafferrabile. E può ancora parlare al tempo presente in maniera urticante. Cosa è vero cosa è falso? Non si sa più a quale menzogna o realtà credere.

Come nasce il progetto?

Trilogia della città di K, Federica Fracassi.
Photo ® Masiar Pasquali

Fin da subito, discutendo con Federica che ci ha proposto inizialmente l’idea, mi è tornato in mente l’allestimento pensato dall’architetto brasiliano Lina Bo Bardi per il Museo d’Arte di San Paolo del Brasile dove le opere d’arte sono disposte non seguendo un ordine cronologico o monografico, ma attraverso un’unica stanza in cui sono incastonate in vetri appesi a un basamento di marmo e sembrano galleggiare, fluttuare nell’aria. Così ho voluto fare anche per Trilogia: creare una molteplicità di sguardi. Ho pensato di fare lo spettacolo proprio qui, al Teatro Studio Melato – anche se mi auguro di portare la Trilogia in altri teatri -, perfetto per la struttura labirintica del testo. La sua pianta circolare rompe la tradizionale frontalità attore-spettatore, consentendo una dialettica continua di distanza e vicinanza con gli spettatori. Un vortice degli sguardi e delle traiettorie che permette al pubblico di sentirsi partecipe di un travaglio di interpretazione e non soltanto spettatore.

Quanto è importante l’uso delle luci?

Trilogia della città di K., da destra Federica Fracassi, Alessandro Berti.
Photo ® Masiar Pasquali

il teatro che maggiormente mi interessa, mi prende, è il teatro che ha la capacità di esplorare nuovi linguaggi. La luce è una componente importantissima, viaggia dunque sullo stesso binario della regia. Non riesco mai a comprendere il limite di demarcazione tra scenografia e lighting design, questa è per me una barriera che non esiste. La luce non può essere banalizzata a semplice mezzo per abbellire la parte scenografica e per illuminare bene gli attori. Anzi, per me non è poi così importante che l’attore sia illuminato bene, secondi i canoni dei manuali. A volte voglio che sia l’attore ad andare verso la luce che crea lo spazio. La luce non è al servizio dell’illustrazione dello spettacolo, ma dell’”espressione”, affinché la drammaturgia del testo parli in qualche modo in maniera subliminale allo spettatore. L’immateriale della luce riesce a esprimere quel non detto che il pubblico in qualche modo può recepire, trasformare, ributtare in avanti.

E come le ha concepite per questo spettacolo?

Trilogia della città di K., Alessandro Berti e Consuelo Battiston.
Photo ® Masiar Pasquali

A inizio spettacolo, è in scena la stessa Ágota Kristóf (interpretata dall’attrice Federica Fracassi, con una impressionante mimesi fisica) seduta a una scrivania, intenta a scrivere il suo romanzo. Come se fosse nel suo stesso studio di casa. Volevo una luce che proteggesse la sua intimità avvolgendola in modo morbido come il guscio di una mandorla. Ho usato una serie di sagomatori con ottiche molto strette (5 o 10 gradi) che sembrano dei bazooka. Posizionati anche a distanza di dieci metri, permettono di concentrare la focale su un punto anche molto piccolo, dettagli come i piedi. Nella scena dell’amplesso violento di Clara con Klaus, il volto di Clara è invece disegnato totalmente nel bianco ghiacciato, quasi fosse una creatura spettrale, mentre tutto intorno è avvolto in una tinta rosso-violacea. Nel secondo capitolo, la luce ha una funzione potrei dire “architettonica”. La città di K è narrata emotivamente o geometricamente da rettangoli disegnati grazie a sagomatori perpendicolari, con l’aggiunta di due lampade a LED che vengono fatte calare dall’alto e la cui distanza dal pavimento può variare a seconda delle situazioni, concentrando o allargando il fascio colorato. La loro funzione, così come i cambia-colori dall’alto, è quella di far vibrare le situazioni tramite un colore che ha una funzione emotiva, mai illustrativa. L’elemento immateriale della luce plasma lo spazio, creandone l’ossatura architettonica della città, in una sospensione psichica determinata dal colore. Una terza parte che culmina nel duello verbale tra i due gemelli dentro il loro castello di narrazioni. Si rompe la linearità di tempi, con la sincronicità anche delle scene, sovrapposte e velocizzate.

Sovrastano dall’alto i celeberrimi proiettori Svoboda con quei fasci di luce molto potenti

Trilogia della città di K, scena con statua.
Photo ® Masiar Pasquali

Queste luci le ho usate per illuminare la passerella centrale e per illuminare la statua che raffigura il piccolo Mathias, accovacciato, che emerge da una botola, come una creatura del sottosuolo (una statua gigantesca, iperrealista, creata da Nicola Fagnani, ndr). Ma anche per avvolgere la protagonista nel primo atto in una luce che la protegga. Ma le ho volute subito, senza sapere ancora come le avrei usate. Come omaggio a Josep Svoboda, architetto, scenografo, sperimentatore geniale. Attraverso il laboratorio della “Lanterna Magika” metteva a punto una serie d’invenzioni illuminotecniche, creando scenari drammatici usando solo la luce che per lui costituisce un elemento imprescindibile delle scenografie, tanto che non accettava che qualcuno altro si occupasse per lui dell’illuminazione di una sua opera. Queste luci portano il suo nome perché le ha ideate proprio lui, in collaborazione con gli specialisti di ADB. Creano sipari di luce, morbida, avvolgente, calda e uniforme, senza una direzione apparente. Di Svoboda avevo visto nel 1989 una spettacolo leggendario, quel Faust frammenti di Giorgio Strehler. Avevo 15 anni e quella messa in scena mi ha segnato tantissimo per tutta la vita. Ho un ricordo molto netto, molto preciso. Sospesa sull’alto soffitto del Teatro Studio (allora si chiamava così), a sovrastare la scena, una gigantesca spirale di seta bianca, trecentocinquanta metri di seta di tre metri di larghezza, invenzione di Josef Svoboda, illuminata da tenui luci, tesa a illustrare metaforicamente il cielo, il cosmo, l’eternità.

Una Strip LED di luce divide in due il pavimento. Con quale intento?

Trilogia della città di K, scena con statua.
Photo ® Masiar Pasquali

Può simboleggiare tante cose: il tema della frontiera che viene costantemente evocato dai fratelli che vogliono oltrepassarla. Anche Kristóf ha dovuto attraversare la frontiera quando dall’Ungheria, invasa dall’armata rossa, è andata esule in Svizzera con marito e figlia nel 1956. Ho voluto dare alla luce la valenza simbolica di questa condizione, ma simboleggia anche il doppio dei fratelli gemelli, il taglio, una lama che a un certo punti separa, divide, Lucas e Claus. Persino un rivolo di sangue, quando la luce diventa rossa.

La Trilogia della città di K. è un labirinto che avvicina e allontana di continuo storie e personaggi. Come interviene la trasposizione teatrale per affiancare questa complessità?

L’unico modo per onorare questa complessità labirintica era lavorare su una messa in scena il più dinamica possibile. Dall’alto pendono anche grandi schermi, come dei parallelepipedi, abitati da una miriade di personaggi, icone video. Si muovono come spettri che fanno apparire ricordi e flashback,  luoghi, dettagli, i gemelli stessi bambini, la nonna, il perverso curato del paese, la ragazza menomata e abusata, l’ufficiale omosessuale. Schermi che a un certo punto, quando fantasia e realtà si confondono, diventano nient’altro che monocromi di luce.