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Scena d'insieme, Nozze di sangue. Photo Antonio Parrinello

Lina Sastri: “Niente può spegnere la luce del teatro”

By Cristina Tirinzoni
Pubblicato il
Giugno 2024

Lina Sastri. Photo Carlo Bellincampi

A tu per tu con Lina Sastri. Artista a tutto tondo (teatro, cinema, televisione, musica, tre David di Donatello, due Nastri d’Argento), si racconta (e racconta il suo rapporto con le luci di scena) all’indomani del debutto al Teatro Strehler di Milano in Nozze di sangue, uno dei titoli più folgoranti della storia del teatro del Novecento europeo con l’adattamento e la regia di Lluís Pasqual, disegno luci di Pascal Mérat.

Un racconto nella notte attorno al fuoco. Con tutti gli attori in scena seduti in cerchio sulle sedie, come avviene col flamenco, in un clima di festa, fra danze e canti, il battito incalzante delle mani e del cajón. Come nella piccola comunità chiusa, nell’arida campagna dell’Andalusia, dove tutti incombono l’uno sull’altro, sono ombre invadenti e sempre presenti nelle vite degli altri. Sullo sfondo un grande portone di legno, di un patio o di una antica masseria, sormontato da un rosone in ferro battuto, scontornato da muri sbrecciati.

Colori cupi, luci basse, scialle scuro, a suggerire l’oscurità del dolore. Una buca che assomiglia a una tomba.  Funebri presagi di un dramma che è nell’aria fin dall’inizio. Al centro della scena, prona, il viso implacabile rivolto al pubblico, una donna rivestita di nero racconta un terribile fatto di sangue. È la Madre dello Sposo, a cui il destino ha già tolto il marito e un altro figlio ventiduenne, rabbiosa e dolente al pensiero di restare sola dopo le nozze del figlio che le è rimasto. A dominare la scena è una intensa Lina Sastri alla quale il regista catalano Lluís Pasqual ha affidato il doppio, impegnativo ruolo della Sposa e della Madre in Nozze di sangue. Una storia ispirata a un fatto vero, scritta da Federico García Lorca nel 1933, tre anni prima della sua morte a Granada per mano dei falangisti di Francisco Franco, in una Spagna di repressioni e arcaico patriarcato. La trama è quella di una tragedia classica: il giorno delle nozze la Sposa fugge

Giovanni Arezzo e Lina Sastri in Nozze di sangue. Photo Antonio Parrinello

con l’ex fidanzato Leonardo – un lontano parente, ormai sposato e padre, riaccendendo una faida che ha visto coinvolte le famiglie. Lo Sposo tradito li insegue e si finisce a coltellate. Non ci sono nomi in questa tragedia, solo uno, quello di Leonardo, poiché i personaggi sono archetipi, attraverso cui, come diceva Lorca, “Si possono portare alla luce le leggi eterne del cuore e dei sentimenti umani”. Lluís Pasqual (che di recente ha firmato il Don Carlo di Verdi per l’apertura della Stagione lirica del Teatro alla Scala), considerato il massimo esperto dell’opera di García Lorca, non solo ha ridotto i tre atti in uno solo della durata di 70 minuti, ma ne ha fatto uno spettacolo di flamenco dove la parola di Lorca diventa canto, il canto musica, la musica danza. Le coreografie sono di Nuria Castejón, le scene di Marta Crisolini Malatesta, i costumi di Franca Squarciapino e le luci di Pascal Mérat (che ha firmato le luci anche per il Don Carlo scaligero e abbiamo intervistato sul numero 346 di LUCE).

I tre musicisti sono Riccardo Garcia Rubì (chitarra), Carmine Nobile (chitarra), Gabriele Gagliarini (percussioni). Carica della sua tragica e sensuale recitazione ondeggiante tra Eros e Thanatos, mutando enfasi e tonalità della voce, a volte con il fiato di un sussurro, a volte con la forza dell’urlo, sciogliendo o raccogliendo i capelli con una forcina, un’intesa Lina Sastri primeggia sulla scena del Teatro Strehler di Milano. In un monologo quasi ininterrotto, in cui emerge tutta la sua passionalità e il talento di grande attrice.

Stanca, la voce calda e roca (“in verità sono quasi afona stasera”), ma felice dei calorosi applausi del pubblico milanese, le folte sopracciglia a ombreggiare lo sguardo bruciante , seduta a uno piccolo caffè vicino al Teatro Strehler che ricorda un bistrot parigino, con le sedie in velluto rosso, la panchetta, il tavolino rotondo, Lina Sastri parla di teatro e di luci (e di molto altro ancora) con quei suoi occhi che hanno bagliori ardenti come braci, sorseggiando un caffe americano “con dolcificante”. Indossa un morbido tailleur pantalone azzurro, una blusa bianca (“sono i mie colori di oggi, dopo tanto rosso e nero“), al polso un braccialetto in corallo rosso con cornetti portafortuna (“la mia anima napoletana”).

Lina Sastri in Nozze di sangue. Photo Antonio Parrinello
Scena d'insieme, Nozze di sangue. Photo Antonio Parrinello

In “Nozze di sangue” interpreti la Madre dello sposo e la Sposa

Una doppia sfida, non era facile. Ringrazio Lluís che mi ha dato la possibilità di interpretare il ruolo della giovane sposa, non ho 20 anni e nella vita reale sarebbe impossibile, ma per quella magia misteriosa che è il teatro, sciogliendo soltanto i cappelli e cambiando intonazione di voce, divento la giovane sposa. Credo che Lluís abbia voluto la stessa attrice a interpretare le due donne per dare il senso della continuità nel destino, una continuità di dolore e di solitudine, fra due generazioni di donne forti e coraggiose chiamate a recitare lo stesso identico copione, immutabilmente fisso nei secoli, vittime di quella società rurale, del sistema maschilista e oppressivo della Spagna rurale. Dove per gli uomini l’onore si riscatta solo col sangue, e alle donne resta il compito di piangerli.

Come hai affrontato il doppio ruolo?

Non ho mai ragionato molto su quello che devo fare in scena (ride). Ho un modo mio di affrontare il palcoscenico che non è fatto di pensiero organizzato. Lo faccio con irruenza, non devo riflettere, parto sempre da un’emozione. Lluís voleva che esprimessi non un dolore melodrammatico, tout court quello con le lacrime, ma un dolore tragico, “l’oscura radice dell’urlo”. Un grido nero che scaturisce da un silenzio e dalla violenza. Quello della Madre è il grido per la perdita del proprio figlio e del marito cui il coltello e la morte violenta le hanno sottratto gli uomini della sua vita. Quello della Sposa combattuta nel seguire la passione amorosa, ma che decide di fuggire con il suo antico amore durante la festa delle nozze è un grido di libertà. Ma diventerà il grido di solitudine e disperazione. Lorca non si può recitare, si deve “incarnare”. Necessita il duende, sorta di forza oscura e primitiva, che non può essere insegnato o appreso razionalmente, ma deve essere colto intuitivamente e profondamente sentito. Come dice Federico García Lorca: “Il duende non sta nella gola; il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi”, per arrivare all’anima.

La musica è suonata dal vivo da alcuni musicisti e a volte dà vita a passi di flamenco in scena.

Sì, perché Nozze di sangue di Federico García Lorca è stato pensato da Lluís Pasqual, proprio “come uno spettacolo di flamenco”. Abbiamo avuto anche una bravissima insegnante di flamenco, Olga Nuria, che ci ha insegnato come braccia, mani e polsi debbano muoversi.

I ritmi del racconto ci sorprendono

Anche la mia voce è all’interno del ritmo del flamenco, che è un battito di mani e di cajón (strumento a percussione, ndr) sempre incalzante. Senza ritmo, non c’è flamenco. Sono inseparabili e anche quando è meno palpabile, il battito c’è anche se non si sente.

Come racconteresti il disegno luci creato da Pascal Mérat per Nozze di Sangue?

Ha l’intensità di un canto flamenco. Un importante alleato dell’idea registica che amplifica e sostiene la trama, in grado di illuminare quando necessario in modo violento ed evidenziare il vigore che viene dalla parola, e a volte mettere in ombra i personaggi e la scena. L’azione finale è accompagnata dal commento della luce lunare che si fa desiderio, fame e brama, e poi accompagna con rudezza verso l’epilogo di coltelli, di sangue e di disperazione.

All'apertura del sipario sei illuminata dall'alto da un potente fascio di luce

Anche il linguaggio della luce esprime l’incombere di un destino ineluttabile a cui niente e nessuno può sottrarsi. Tutto è già accaduto.

Le pratiche dell'illuminazione e i professionisti della luce stanno acquisendo sempre più rilevanza nella messa in scena teatrale, anche nel cosiddetto teatro di parola. Cosa ne pensi?

Ma il teatro è luce! Diceva Eduardo De Filippo: “Fino a che la luce della ribalta non m’acceca con le sue piccole stelle luminose e il buio della sala non spalanca il suo baratro infinito, io non rendo, né so, né posso prendere il mio posto della finzione”. Ci sono i tuoi sguardi, le parole, le emozioni, ma finché non è accesa la luce non c’è ancora il teatro. La luce è un tessuto di finitura che sostiene e perfeziona l’intera messinscena, fondendosi con il testo, le scene, la regia e gli attori. Sono grata a tutti i light designer con cui ho lavorato.

Tra i diversi tipi di illuminazione quella che ami di più in teatro?

Quella che nel gergo teatrale chiamiamo “l’occhio di bue”, “il segui persona”. È un proiettore con una temperatura colore molto elevata capace di proiettare un fascio luminoso frontale, molto potente, concentrandolo in un cerchio molto stretto e ben definito e che può essere direzionato facilmente in modo da seguire come un cerchio luminoso i movimenti sul palco dell’attore che devono essere “staccati” dal contesto.

Come vivi la luce sul palcoscenico?

La luce la vivo proprio come movimento. Mi piace entrare e uscire dalla luce, soprattutto negli spettacoli dove canto. Mi ha sempre affascinato la luce, il suo movimento: muta a ogni ora del giorno. Quel suo continuo miracolo di trasformare tutto quello che tocca: l’espressione di un volto, un paesaggio, le nostre emozioni e stati d’animo, la nostra percezione di uno spazio.

“La casa di Ninetta”, film uscito nelle sale cinematografiche a maggio, ha segnato il tuo debutto alla regia.

La casa di Ninetta è nato come racconto di lacrime senza lacrime, ma anche di risate improvvise e capricciose. Un flusso dell’anima, scritto di getto, senza correzioni, qualche tempo dopo la morte di mia madre. Anna, detta Ninetta, la donna più bella e straordinaria che io abbia mai conosciuto, leggera e luminosa, coraggiosa, crocefissa da una malattia che umilia il corpo e lo spirito, come l’Alzheimer. Eppure ho visto fino alla fine una luce nei suoi occhi. Poi il libricino è diventato uno spettacolo teatrale. Adesso un film, una favola sospesa fra realtà e immaginazione. Dedicato a Ninetta e, tutt’intorno, c’è Napoli, la musica, la magia, la luce.

Che luce hai voluto?

Una luce acquarellata, rarefatta e dolce che restituisce la luce di Napoli. Ho cercato, con Simone Zampagni, direttore della fotografia, di usare il meno possibile – sia in interni che in esterni – le luci artificiali; volevo una luce il più possibile vicina alla realtà. Senza contrasti molto forti. Napoli ha una sua luce che non è facile rendere, ma quella è: ha l’aria leggera, il cielo macchiato, c’è il mare dentro la città; e pure nei vicoli in cui non arriva il sole ci sta quella luce.

La luce naturale che ami di più?

La luce che filtra dalle persiane socchiuse delle finestre e disegna righe di ombra. La luce del crepuscolo quando il sole sparisce sotto l’orizzonte, in alto il cielo diventa giallo oro e col porpora nella parte inferiore e tutto diventa fatato. È la luce della malinconia, ma anche del sogno e della speranza.

Quando è cominciata la tua passione per il teatro?

Avevo 17 anni: dopo la maturità ho detto a casa che volevo fare l’attrice e sono andata via. Senza niente, senza un soldo. Ma ero felicissima: con me c’era un ragazzo, attore anche lui, il primo amore. Vivevamo a Roma in un sottoscala, senza acqua calda. Quella “follia di libertà”, che è il teatro, non si è mai spezzata.

L'incontro con Eduardo De Filippo?

Timido all’inizio, come tutti i grandi amori. Prima quasi una comparsa, poi una battuta, poi due, poi una sostituzione, il destino che sempre decide, poi Natale in casa Cupiello, e altro ancora. Era il 1976, ero una ragazzina, timidissima e scontrosa. Al Teatro San Ferdinando (è per tutti il teatro di Eduardo De Filippo, ndr) mi ci portò Gennarino Palumbo, un vecchio attore che lavorava con Eduardo e abitava vicino casa mia a Napoli.  E lui mi prese per fare la comparsa. Una presenza muta. Quando debuttai con Gli esami non finiscono mai, mi regalò una battuta – non era tenuto a farlo – che faceva ridere il pubblico. Mi manca Eduardo. Molto. Maestro di vita e di teatro. Nello spettacolo Il mio Eduardo (portato sulle scene il dicembre dello scorso anno, ndr), ho voluto raccontare quello che appartiene ai miei ricordi e alla mia vita di artista e di donna. Con sincero affetto e umiltà di allieva.

Nella vita sentimentale, la passione

La passione esplose con Kocochinski, pittore e scultore, l’incontro del destino. Cantò una sua canzone: Com’è bello il mare. Lo conobbi così. Alessandro si mise a disegnare un Nettuno triste con un cavalluccio marino che ero io.

Che rapporto hai con il tempo?

Anche se lo specchio mi fa capire che il tempo passa, dentro di me il tempo non esiste, altrimenti non mi sveglierei ogni mattina con la domanda “ce la farò oggi” e la paura e la gioia di cosa voglio fare di nuovo. Non a caso ho voluto intitolare il mio libro (pubblicato nel 2022, ndr) proprio così: Il tempo non esiste, trent’anni di vita artistica attraverso gli scatti di Carlo Bellicampi, amico e fotografo del cuore, da sempre. Tutto è presente e, al tempo stesso, niente è presente. Vivo con l’incoscienza di non sapere, con il rischio di osare, con la voglia di assecondare il mio istinto e il cuore e soprattutto con l’urgenza di fare, al meglio.

Che colore è oggi Lina Sastri?

In passato sono stata il rosso e il nero, oggi il bianco e l’azzurro. Il bianco archetipo dell’assoluto e della luce. il colore che contiene tutti i colori, le vibrazioni della pace e dell’amore, e della premura. E l’azzurro del mare infinito che si incontra con l’azzurro del cielo.

Prossimi appuntamenti estivi?

Il 28 luglio al Segesta Teatro Festival con La mia musica. Uno spettacolo di teatro musicale che intreccia prosa, poesia e musica napoletana da Di Giacomo a Tosti, da Pino Daniele a Enzo Gragnaniello, al pianoforte il maestro Adriano Pennino, disegno luci di Gianni Caccia.

Per concludere, non una domanda, ma così di getto un tuo pensiero, come un tweet da condividere, su LUCEweb.

Niente può spegnere la luce del teatro.

AUTHOR

Cristina Tirinzoni

Cristina Tirinzoni, laureata in scienze politiche, giornalista professionista di lungo corso, ha collaborato con le maggiori testate femminili, occupandosi delle pagine di cultura, libri, teatro, arte. Convinta che la bellezza (forse) salverà il mondo e che non si finisce mai di scoprire e di raccontare grandi e piccoli costruttori e seminatori di bellezza. Ha pubblicato due libri di poesie Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni) e Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore)

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