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Dan Flavin, Untitled, 1997. Installazione permanente in Santa Maria in Chiesa Rossa, Milano. Foto Roberto Marossi. Courtesy Fondazione Prada

Untitled, l’installazione permanente di Dan Flavin in Santa Maria in Chiesa Rossa a Milano

By Cristina Tirinzoni
Pubblicato il
21 Ottobre 2023

Dan Flavin, Untitled, 1997. Installazione permanente in Santa Maria in Chiesa Rossa, Milano. Foto Roberto Marossi. Courtesy Fondazione Prada

Periferia sud di Milano, via Lodovico Montegani all’angolo con via Neera 24. Nella austerità monumentale dello stile romanico lombardo, si staglia un’imponente chiesa dai mattoni rossi con un grande pronao (aggiunto successivamente, nel 1960) con colonne di granito: è la Chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, progettata dal celebre architetto milanese Giovanni Muzio negli anni trenta (autore anche di la Ca’ Brutta in Moscova e il palazzo della Triennale) e custodisce un gioiello di light art (semisconosciuto): Untitled, l’ultima installazione luminosa permanente site-specific che il leggendario artista americano Dan Flavin (New York 1933-1996) uno dei massimo esponenti del minimalismo americano, famoso per le sue opere al neon, ha creato per Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, poco prima della sua scomparsa, chiamato  nel maggio 1996 da un religioso illuminato, il reverendo Giulio Greco, il parroco dell’epoca che voleva portare luce e speranza nella sua comunità e a un quartiere che  stava attraversando momenti critici, in occasione del restauro dell’edificio come elemento di rinnovamento della Chiesa parrocchiale.

Negli orari d’apertura l’installazione di Dan Flavin è sempre accesa. Il suggerimento è di ammirarla verso l’imbrunire (la chiesa è aperta fino alle 19) per apprezzare in pieno i giochi di luce quando sulle pareti irrompe il bagliore fosforescente con una densità assolutamente diversa.

Dan Flavin, Untitled, 1997. Installazione permanente in Santa Maria in Chiesa Rossa, Milano. Foto Roberto Marossi. Courtesy Fondazione Prada

Già di lontano, ancora in strada, baluginano delle luci misteriose, dai colori surreali: attraverso i finestroni dell’edificio filtra una singolare luce bluastra che attira l’attenzione. Se le antiche vetrate portavano i colori della luce all’interno delle cattedrali, in Chiesa Rossa è la luce di Flavin che esce all’esterno e ci chiama.

Una volta entrati ci si dimentica istantaneamente del rumore molesto della città appena lasciata alle spalle e si è inondati di luce. La navata centrale è illuminata da tubi al neon blu e verdi, il transetto si accende di rosa , verso la parete di fondo l’abside brilla di un giallo dorato e ultravioletto. Tubi fluorescenti che si ripetono e si intrecciano come fili. Una mescolanza di fonti luminose, al neon e lampade wood, che combinate, ricreano un suggestivo rapporto tra luce e architettura, una sequenza di colonne in pietra classicheggianti, che donano alla chiesa un ritmo solenne e ordinato. Creando uno spazio colorato. Enfatizzato dalla pareti che sono tornate bianche, dopo un recente restauro, reso necessario per riportare all’originario candore intonaci e l’imbiancatura in modo da rendere ancora più evidente l’installazione di Dan Flavin.

Con Untitled non ci troviamo di fronte ad un’opera d’arte, ma siamo immersi in essa, la abitiamo, avvolti dall’intensità dell’energia del colore che ridefinisce lo spazio interno  “dipingendo” i volumi austeri dell’architettura di Muzio, innescando una nuova armonia, nelle differenze anche stridenti di luce colorata, tra le parti, in maniera tanto efficace quanto sorprendente, accompagnando il visitatore e il fedele in una successione che suggerisce la progressione naturale della luce da notte a giorno.

Dan Flavin, Untitled, 1997. Installazione permanente in Santa Maria in Chiesa Rossa, Milano. Foto Roberto Marossi. Courtesy Fondazione Prada

Serve parecchio talento per trasformare la luce più asettica di sempre – il neon – in un’opera d’arte: l’americano Dan Flavin ci è riuscito. Si avvicina all’arte durante il servizio militare in Corea. Nel 1959 prosegue la formazione artistica alla Columbia University. Nei primi anni ’60, inizia a lavorare come impiegato nell’ufficio delle poste del Guggenheim Museum e come guardiano al Museum of Modern Art, conoscendo alcuni dei più grandi artisti minimalisti: Sol LeWitt, Lucy Lippard e Robert Ryman. I suoi primi studi sono bozzetti in acquerello su carta di riso, ispirati a scrittori e artisti, densi di citazioni. Poi, qualcosa cambia nella sua vita. Le sue prime sperimentazioni con l’arte della luce risalgono al 1963. Sculture di luce, da lui definite “icons”, dipinti quadrati monocromi illuminati da semplici lampadine a incandescenza presenti in commercio, prodotti in serie senza particolari caratteristiche qualitative. Da allora il legame tra l’artista newyorchese e il neon diviene indissolubile. I principi attorno a cui si articola la sua estetica? Il l tubo fluorescente, la luce diffusa emanata da questo e la disposizione spaziale. Sculture monumentali “che celebrano stanze spoglie”. Esigono silenzio e spazio. Sculture dove il vuoto acquisisce un valore di bellezza inaudita. Sono leggendarie le sue installazioni, perché non sono solo tubi fluorescenti colorati assemblati in modo originale. Sono luce che si propaga nell’ambiente, misura lo spazio dando ritmo e colore, lo modella e poi lo reinventa, nelle algide geometrie delle luci bianche, nelle vellutate cromie un po’ retro dei rosa, dei gialli e dei blu e del verde e dalla luce ultravioletta.

La luce rappresenta un archetipo simbolico, si è sempre cercato di trasformare un fenomeno fisico come la luce in fenomeno trascendentale. Per Flavin la luce è materia concreta. “Non c’è alcun invito a meditare, a contemplare”, diceva.. È vero, l’artista ha sempre negato con enfasi che le sue opere avessero una dimensione trascendente o simbolica. Lui stesso della sua arte era solito dire “È quello che è e non è nient’altro”.  Eppure, osservando Untitled non possiamo tuttavia fare a meno di avvertire, nell’atmosfera irreale creata dai piani di luce colorata, un senso profondo di sacralità che le sue installazioni irradiano nello spazio. Una epifania del reale e delle cose come un qualcosa di misterioso e sconosciuto, di una consistenza quasi immateriale.

Santa Maria in Chiesa Rossa, Milano. Foto Roberto Marossi. Courtesy Fondazione Prada

Ma la storia di come accadde che in una parrocchia della periferia degradata di Milano venne istallata un’opera del grande artista americano merita di essere raccontata dall’inizio. Durante una gita a Varese, a Villa Panza, con alcuni fedeli, esperti collezionisti d’arte, il parroco di allora Giulio Greco, “incontrò” un’opera che Dan Flavin aveva realizzato con lampade fluorescenti in memoria del fratello gemello morto durate la guerra del Vietnam. La luce palpabile e densa, ispiratrice, impressionò il religioso. Baluginò un pensiero. A ridare nuova vita alla sua chiesa di periferia e portare luce e speranza in un quartiere segnato dal disagio avrebbe potuto essere proprio la straordinaria luce di Dan Flavin. “Gli scrissi (era il maggio 1996,ndr) perché la chiesa diventasse un segno di luce nel mezzo del quartiere, perché gli uomini possano vedere questa luce e riuscire a sperare. E la risposta venne e fu aldilà delle aspettative”.  L’uomo di contatto fu Michael Govan, direttore della Dia Foundation di New York: promise di parlare con l’artista del progetto. Non fu un’impresa facile. Flavin era malato  in più nutriva una profonda avversione verso la Chiesa, forse perché da adolescente  era stato costretto dai genitori, profondamente di fede cattolica, a studiare in seminario dei gesuiti. Alla fine, però, venne convinto. In una stanza d’ospedale a New York l’artista tracciò gli schizzi e i disegni. Govan racconta che Flavin sembrava non pensare ad altro e l’opera era al centro della sua attenzione anche nei momenti più impensati, come quando guardava una partita di baseball alla televisione. Aveva consegnato il progetto definitivo per la Chiesa Rossa due giorni prima di morire, dicendo “Adesso posso finalmente morire in pace”. ll 29 novembre 1996 l’artista  morì, stroncato dalle complicazioni renali e cardiache legate al diabete.  L’installazione milanese di Dan Flavin fu inaugurata l’anno successivo della morte, in occasione di una grande retrospettiva dedicata all’artista dalla Fondazione Prada (che ancora oggi continua a contribuire concretamente a garantire il mantenimento dell’opera) in collaborazione del Dia Center for the Arts di New York e del Dan Flavin Estate.

Se voleste poi approfondire la produzione di Dan Flavin è possibile visionare la sua più grande raccolta di installazioni permanenti proprio a Varese, a Villa Panza, un centro d’arte contemporanea donato al FAI nel 1996 da Giuseppe Panza di Biumo – uno dei più importanti collezionisti d’arte contemporanea al mondo, scomparso nel 2010 – e dalla moglie Giovanna Magnifico. “Tutti si mettevano a ridere quando vedevano i tubi fluorescenti di Dan Flavin, dicevano che fare arte con i tubi fluorescenti che sono un prodotto che si compra in un negozio per elettricisti, era una cosa stupida. Invece Dan Flavin è stato un grande artista. Bisogna saperlo esporre, non si può mettere un Flavin in una stanza con altre cose, ha bisogno di essere solo, in una stanza bianca, allora la luce diventa la sua opera d’arte. […] E questo spazio diventa animato, diventa vita, uno spazio dove si entra e si vive”, racconta Panza nella sua autobiografia Ricordi di un collezionista.

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