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LA LUCE NELLA TRILOGIA DELLA CITTÀ DI K. IN SCENA AL TEATRO STUDIO MELATO DI MILANO: INTERVISTA A LUIGI DE ANGELIS
By Cristina Tirinzoni
Pubblicato il
Dicembre 2023
Una fiaba nera. Nerissima. In un luogo e tempo dai confini labili, assediati della guerra. Un labirinto narrativo che ruota intorno alla vicenda di due fratelli gemelli, Lucas e Klaus, dalla loro infanzia crudele con la nonna strega fino all’età adulta della separazione e poi a un misterioso ritrovarsi. Una narrazione che sa abilmente mescolare presente e passato, verità e menzogna, sovrapponendo l’immaginato, il sognato e il vissuto, presenze e fantasmi, storie dentro le storie, facendo perdere il senso dell’orientamento allo spettatore. Klaus e Lucas sono veramente due gemelli o le due facce di una stessa persona? Forse tutto quel che abbiamo visto in scena era solo quanto immaginato (e scritto) in un romanzo di Lucas che ha cambiato nome una volta fuggito all’estero? Un groviglio di domande. Lasciando la porta aperta sull’interpretazione, “Non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio, sulla morte, sul dolore non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui”, dice Federica Fracassi, l’attrice che interpreta il ruolo della scrittrice, quando rientra in scena, per chiudere la storia, congedando i suoi personaggi.
È andata in scena in prima assoluta al Teatro Studio Mariangela Melato del Piccolo Teatro di Milano (dove resterà in replica fino al 21 dicembre) la versione teatrale di la Trilogia della città di K., tratta dal celebre romanzo omonimo della scrittrice ungherese Ágota Kristóf. Un progetto dell’attrice Federica Fracassi e della compagnia Fanny & Alexander (Chiara Lagani, autrice dell’adattamento teatrale e Luigi De Angelis che cura regia, scene, luci e video). In scena, oltre a Federica Fracassi, si muovono altri quattro attori, ognuno interpretando più personaggi: Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses. Bravissimi (un plauso a tutto il cast).
Un elemento distintivo dello spettacolo è sicuramente l’illuminazione: la capacità di creare con forme di luce, nell’essenzialità della messa in scena, in uno spazio quasi del tutto vuoto eppure pieno di così tante storie, lo spazio architettonico ed emozionale per ogni scena. Un apparato luci imponente: 34 cambi luminosi, 14 proiettori Svoboda, sagomatori, 27 schermi video. Alla consolle computerizzata delle luci (sincronizzate con la traccia audio) Manuel Frenda, capo elettricista del Piccolo Teatro, sound design Mirto Baliani ed Emanuele Wiltsch Barberio. Abbiamo approfondito il discorso con Luigi De Angelis che ne cura la regia e le luci. Nato a Bruxelles nel 1974, De Angelis ha sempre posto il tema della luce e del suo utilizzo come strumento centrale del suo lavoro, nei contesti di un’attività artistica articolata e sicuramente eclettica sul piano dei linguaggi. È regista, scenografo, filmmaker, light e sound designer. Nel 1992 ha fondato a Ravenna, con Chiara Lagani, Fanny & Alexander, uno dei gruppi teatrali più radicali della sperimentazione italiana.
Perché la scelta della Trilogia ?
Nasce da una sorta di ossessione che io e Chiara, insieme a Federica, coviamo da tempo. Sono moltissimi gli aspetti che rendono questo romanzo terribilmente bello e affascinante, a partire dalla prosa per nulla facile della scrittrice. L’argomento drammaturgico è in partenza un materiale vulcanico in cui realtà e finzione si trasmutano senza posa l’una nell’altra, rispecchiandosi in maniera liquida e inafferrabile. E può ancora parlare al tempo presente in maniera urticante. Cosa è vero cosa è falso? Non si sa più a quale menzogna o realtà credere.
Come nasce il progetto?
Fin da subito, discutendo con Federica che ci ha proposto inizialmente l’idea, mi è tornato in mente l’allestimento pensato dall’architetto brasiliano Lina Bo Bardi per il Museo d’Arte di San Paolo del Brasile dove le opere d’arte sono disposte non seguendo un ordine cronologico o monografico, ma attraverso un’unica stanza in cui sono incastonate in vetri appesi a un basamento di marmo e sembrano galleggiare, fluttuare nell’aria. Così ho voluto fare anche per Trilogia: creare una molteplicità di sguardi. Ho pensato di fare lo spettacolo proprio qui, al Teatro Studio Melato – anche se mi auguro di portare la Trilogia in altri teatri -, perfetto per la struttura labirintica del testo. La sua pianta circolare rompe la tradizionale frontalità attore-spettatore, consentendo una dialettica continua di distanza e vicinanza con gli spettatori. Un vortice degli sguardi e delle traiettorie che permette al pubblico di sentirsi partecipe di un travaglio di interpretazione e non soltanto spettatore.
Quanto è importante l’uso delle luci?
il teatro che maggiormente mi interessa, mi prende, è il teatro che ha la capacità di esplorare nuovi linguaggi. La luce è una componente importantissima, viaggia dunque sullo stesso binario della regia. Non riesco mai a comprendere il limite di demarcazione tra scenografia e lighting design, questa è per me una barriera che non esiste. La luce non può essere banalizzata a semplice mezzo per abbellire la parte scenografica e per illuminare bene gli attori. Anzi, per me non è poi così importante che l’attore sia illuminato bene, secondi i canoni dei manuali. A volte voglio che sia l’attore ad andare verso la luce che crea lo spazio. La luce non è al servizio dell’illustrazione dello spettacolo, ma dell’”espressione”, affinché la drammaturgia del testo parli in qualche modo in maniera subliminale allo spettatore. L’immateriale della luce riesce a esprimere quel non detto che il pubblico in qualche modo può recepire, trasformare, ributtare in avanti.
E come le ha concepite per questo spettacolo?
A inizio spettacolo, è in scena la stessa Ágota Kristóf (interpretata dall’attrice Federica Fracassi, con una impressionante mimesi fisica) seduta a una scrivania, intenta a scrivere il suo romanzo. Come se fosse nel suo stesso studio di casa. Volevo una luce che proteggesse la sua intimità avvolgendola in modo morbido come il guscio di una mandorla. Ho usato una serie di sagomatori con ottiche molto strette (5 o 10 gradi) che sembrano dei bazooka. Posizionati anche a distanza di dieci metri, permettono di concentrare la focale su un punto anche molto piccolo, dettagli come i piedi. Nella scena dell’amplesso violento di Clara con Klaus, il volto di Clara è invece disegnato totalmente nel bianco ghiacciato, quasi fosse una creatura spettrale, mentre tutto intorno è avvolto in una tinta rosso-violacea. Nel secondo capitolo, la luce ha una funzione potrei dire “architettonica”. La città di K è narrata emotivamente o geometricamente da rettangoli disegnati grazie a sagomatori perpendicolari, con l’aggiunta di due lampade a LED che vengono fatte calare dall’alto e la cui distanza dal pavimento può variare a seconda delle situazioni, concentrando o allargando il fascio colorato. La loro funzione, così come i cambia-colori dall’alto, è quella di far vibrare le situazioni tramite un colore che ha una funzione emotiva, mai illustrativa. L’elemento immateriale della luce plasma lo spazio, creandone l’ossatura architettonica della città, in una sospensione psichica determinata dal colore. Una terza parte che culmina nel duello verbale tra i due gemelli dentro il loro castello di narrazioni. Si rompe la linearità di tempi, con la sincronicità anche delle scene, sovrapposte e velocizzate.
Sovrastano dall’alto i celeberrimi proiettori Svoboda con quei fasci di luce molto potenti
Queste luci le ho usate per illuminare la passerella centrale e per illuminare la statua che raffigura il piccolo Mathias, accovacciato, che emerge da una botola, come una creatura del sottosuolo (una statua gigantesca, iperrealista, creata da Nicola Fagnani, ndr). Ma anche per avvolgere la protagonista nel primo atto in una luce che la protegga. Ma le ho volute subito, senza sapere ancora come le avrei usate. Come omaggio a Josep Svoboda, architetto, scenografo, sperimentatore geniale. Attraverso il laboratorio della “Lanterna Magika” metteva a punto una serie d’invenzioni illuminotecniche, creando scenari drammatici usando solo la luce che per lui costituisce un elemento imprescindibile delle scenografie, tanto che non accettava che qualcuno altro si occupasse per lui dell’illuminazione di una sua opera. Queste luci portano il suo nome perché le ha ideate proprio lui, in collaborazione con gli specialisti di ADB. Creano sipari di luce, morbida, avvolgente, calda e uniforme, senza una direzione apparente. Di Svoboda avevo visto nel 1989 una spettacolo leggendario, quel Faust frammenti di Giorgio Strehler. Avevo 15 anni e quella messa in scena mi ha segnato tantissimo per tutta la vita. Ho un ricordo molto netto, molto preciso. Sospesa sull’alto soffitto del Teatro Studio (allora si chiamava così), a sovrastare la scena, una gigantesca spirale di seta bianca, trecentocinquanta metri di seta di tre metri di larghezza, invenzione di Josef Svoboda, illuminata da tenui luci, tesa a illustrare metaforicamente il cielo, il cosmo, l’eternità.
Una Strip LED di luce divide in due il pavimento. Con quale intento?
Può simboleggiare tante cose: il tema della frontiera che viene costantemente evocato dai fratelli che vogliono oltrepassarla. Anche Kristóf ha dovuto attraversare la frontiera quando dall’Ungheria, invasa dall’armata rossa, è andata esule in Svizzera con marito e figlia nel 1956. Ho voluto dare alla luce la valenza simbolica di questa condizione, ma simboleggia anche il doppio dei fratelli gemelli, il taglio, una lama che a un certo punti separa, divide, Lucas e Claus. Persino un rivolo di sangue, quando la luce diventa rossa.
La Trilogia della città di K. è un labirinto che avvicina e allontana di continuo storie e personaggi. Come interviene la trasposizione teatrale per affiancare questa complessità?
L’unico modo per onorare questa complessità labirintica era lavorare su una messa in scena il più dinamica possibile. Dall’alto pendono anche grandi schermi, come dei parallelepipedi, abitati da una miriade di personaggi, icone video. Si muovono come spettri che fanno apparire ricordi e flashback, luoghi, dettagli, i gemelli stessi bambini, la nonna, il perverso curato del paese, la ragazza menomata e abusata, l’ufficiale omosessuale. Schermi che a un certo punto, quando fantasia e realtà si confondono, diventano nient’altro che monocromi di luce.
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