Sei video e una scultura di Steve McQueen (Londra 1969), del regista, sceneggiatore, produttore cinematografico e artista visivo pluripremiato, appaiono dal buio negli spazi milanesi dell’Hangar Pirelli Bicocca. Sono opere che svelano le linee d’ombra della cultura occidentale.
Stiamo parlando della mostra “Sunshine State”, a cura di Vincent Todolì con la collaborazione della Tate Modern di Londra, che si sviluppa nelle Navate, Cubo e all’esterno dell’Hangar, seguendo un percorso espositivo non cronologico, da vivere come una esplorazione immersiva dentro lo sguardo dell’autore nel cinema, nel suo modo di concepire l’immagine come dispositivo etico ed estetico insieme, in cui soggettività e corporalità, vissuto personale, rappresentazione epica e poetica, convergono.
Nel 2014, come regista ha vinto il premio Oscar per il miglior film con 12 anni schiavo; come artista il premio Turner Price nel 1999.
L’artista riscrive in maniera originale il cinema verità, in cui il corpo simile a un sudario viene sottoposto a torture fisiche e psicologiche, e nelle sue opere evita ogni finzione, è attirato dai lati più reconditi e perturbanti del reale, traendo ispirazione dalle sue zone d’ombra e le vicende legate al post colonialismo. Per McQueen non è mai stata importante la forma: film, video, scultura, arte; in tutti i casi è il soggetto che sceglie il medium e non il contrario. I suoi film, come i video sono di una autenticità totale, secondo l’autore il cinema è “una lingua scritta della realtà”, come per Pierpaolo Pasolini.


a dx: Steve McQueen, Caribs’ Leap, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 © Steve McQueen – Foto A. Osio
L’artista londinese si riconosce per tematiche politiche, le questioni razziali, l’ossessione del corpo e gli aspetti atroci del presente. I video in mostra a Milano suggeriscono un’adesione radicale alla fisicità, in cui gli aspetti più orripilanti sono rappresentati senza filtri e si inscrivono in “una estetica del crudele”, non banale. Indagano il significato dell’apparenza, capaci di interrogarci sul diritto alla libertà, sulla costruzione dell’identità e sulla fragilità dell’uomo. Come non ricordare il suo film Shame (2011), in cui il protagonista anaffettivo, dipendente dal sesso, si smaschera in senso di autodistruzione e della decadenza fisica?
McQueen sperimenta particolari tagli, montaggi, improvvisi movimenti che spiazzano lo spettatore, spesso assecondando un flusso visivo senza censure, a ritmo continuo. Lo si comprende immergendosi nei grandi schermi dei suoi video , in primis nell’installazione Shanshiane State (2022), da cui deriva il titolo dell’esposizione all’ Hangar Bicocca, in cui l’autore si sofferma sugli esordi del cinema hollywoodiano e su come le immagini hanno suggestionato il nostro immaginario.
Affascina il passaggio dal cinema del muto al sonoro, sovrapponendolo al racconto intimo di un avvenimento personale, con il fine di smuovere nel fruitore riflessioni sulle influenze del grande schermo nella definizione e percezione individuale e collettiva. Come si sviluppa il suo linguaggio narrativo è da scoprire guardando il video anche più volte. Quel che conta per l’autore è il soggetto. Scrive McQueen: “Sunshine State ha a che fare con il passato e con il presente: il passato che condiziona il presente. Ho utilizzato materiali di The jazz Singer, un film dei 1927 di Aland Crosland, il primo lungometraggio della storia del cinema a includere dialoghi in sincrono con le immagini. Oltre a questo, c’è una storia che mi ha raccontato mio padre”.




L’antologica milanese si apre con Static (2009), sospesa nella navata dell’Hangar in cui si vedono rapide e stranianti riprese aeree della Statua della Libertà di New York e si conclude con Wester Deep (2002), nel Cubo – all’interno di una sala di proiezione appositamente progettata per la mostra –, dove ipnotizzano lo sguardo sequenze senza immagini o sgranate, claustrofobiche, girate in pellicola Super8, capaci di portarci nelle viscere di una miniera d’oro di Tau Tau in Sudafrica. Guardando lo schermo scendiamo all’inferno e scopriamo le indescrivibili condizioni di lavoro dei minatori, giovani corpi già corrosi da una condizione alienante. Stranisce il fruitore anche il pulsare ritmico del suono intermittente di un segnale rosso in cui i minatori sono sottoposti a esercizi di resistenza, e la dimensione sonora dai rumori meccanici è inquietante.
Caribs’Leap (2002), documenta impietosamente la disumanizzazione del corpo nero, indigeno, schiavizzato dalla conquista francese di Grenada nel Seicento (Isola dei Caraibi da cui provengono i genitori di McQueen). I video Charlotte (2004) e Cold Breath (1999) esplorano il corpo, in cui il confine tra violenza e desiderio è il tema. Anche la sintesi plastica di questo viaggio dentro il suo sguardo è Moonlit (2016), due rocce di marmo rivestite da una lamina di foglia d’argento disposte a terra nella Navata dell’Hangar. Scultura che inscena un altrove misterioso per annunciare rinascite possibili, modi ultraterreni dove l’umano è l’alieno.
