Cerith Wyn Evans: classe 1958, gallese, eccentrico dallo stile dandy e appassionato della cultura giapponese, cresce nella trasgressiva Londra post-punk della fine degli anni Settanta, musicalmente attiva, ed esordisce nel cinema sperimentale, allievo degli artisti John Stezaker (1949), guru di generazioni di artisti concettuali inglesi, e Peter Gidal (1946), teorico e filmmaker. Dopo il diploma conseguito al Royal College of Art nel 1984, il poliedrico artista ha continuato fino agli anni Novanta a dedicarsi al cinema d’avanguardia, come assistente di Derek Jarman, consacrato alla fama con il film Caravaggio (1986). Nel nuovo millennio, il suo interesse per il movimento e l’affascinazione dello schermo che irradia la sala cinematografica ammantata dal buio fanno sì che Cerith Wyn Evans, il regista anti-narrativo, approdi alla luce come forma di scultura, spazio, luogo e composizione di “partiture” sonore risolte con installazioni ipnotiche, da vedere e non da raccontare.
Pirelli HangarBicocca non sbaglia un colpo: con “….the Illuminating Gas”, prima mostra personale italiana di Cerith Wyn Evans, comprensiva di opere degli ultimi dieci anni e a cura di Roberta Tenconi e Vincente Todolì, la Tate Modern milanese si conferma vincente anche nella proposta di mostre-evento spettacolari. L’esposizione di Evans è stata tra le più instagrammate da cultori e curiosi di tutte le età, a caccia di forti esperienze percettive. Il titolo della sua mostra milanese è una citazione colta che si riferisce all’ultimo lavoro di Marcel Duchamp (1887-1968), Ètant donnés: 1° la chuted’eau, 2° le gaz d’éclairage… (Given: 1. The Waterfall, 2. The Illuminating Gas), opera enigmatica a cui il padre dell’arte concettuale lavorò per vent’anni, dal 1946 al 1966, che rappresenta un diorama visibile esclusivamente attraverso il foro di una porta. La ricerca di natura sinestetica di Evans è un inno alla libertà espressiva dell’artista, un’elaborata partitura visiva e sonora che ibrida linguaggi diversi, codici e temporalità emessi da dispositivi vari, mescolando suono e immagine in relazione al contesto.
Le sue istallazioni luminose sono il risultato di processi di fenomeni cinematici ottenuti attraverso la mescolanza di materiali vintage, come il neon, e Led, utilizzati per opere che prendono ispirazione dalle connotazioni coreografiche dei movimenti del Teatro Noh, forma di rappresentazione drammaturgica nata in Giappone nel XIV secolo. L’artista gallese – come del resto molti altri, in particolare quelli della generazione nata negli anni Sessanta – consapevolmente “remixa” un repertorio di riferimenti e citazioni “rubati” da svariati ambiti della cultura del XX e del XXI secolo, quali musica, letteratura, filosofia, fotografia, poesia, storia dell’arte, astronomia e scienza. Come diceva Picasso, l’artista è cleptomane, perché capace di rielaborare ex novo vecchi codici e materiali. L’effimero, l’investigazione sulla percezione, l’interesse per il movimento e il montaggio di luce e suono, la ricerca di una dimensione distensiva e riflessiva che liberi l’immaginazione: questi, in estrema sintesi, i codici del lavoro di Evans. Lo dimostrano le 24 opere spettacolari presentate al Pirelli HangarBicocca, che scandiscono come note musicali lo spazio in una complessa partitura di luci e suoni, dove, passeggiando tra sculture storiche e nuove installazioni monumentali, l’asimmetria delle forme, l’elaborazione del concetto del limite quale elemento composito e del ma insito nella cultura Zen rappresentano per Evans elementi drammaturgici fondamentali. Sospensione, vuoto e pausa s’inscenano con opere che si iscrivono in una dimensione spazio-temporale straniante. L’artista ha dichiarato che con questa mostra materializza una “lettera d’amore allo spazio”. Composte da coreografie, arabeschi luminosi e intrecci intermittenti tra luce e suoni, le sue sono opere astratte che seducono, ci guardano e si ascoltano in un’atmosfera armonica, dove tutto è calma e benessere. Gli oltre cinquemila metri quadrati delle Navate e del Cubo del Pirelli HangarBicocca, davvero ardui per qualsiasi artista, sono stati mappati da opere pulsanti, fin dalla prima StarStarStar/Steer (totransversephoton) (2019), composta da sette imponenti colonne luminose alte venti metri, realizzate appositamente per la mostra e composte da uno scheletro di lampade tubolari a Led assemblate in cilindri di varie altezze. Ognuna si illumina indipendentemente, a intermittenza, passando da uno stato di traslucenza a una condizione di luminosità forte e fastidiosa, ridisegnando lo spazio oscurato. Questa installazione site-specific posta all’inizio del percorso espositivo, metaforicamente sembra dialogare con I sette Palazzi Celesti, la titanica opera permanente di Anselm Kiefer del 2004, vicina di stanza. Le titaniche e stroboscopiche colonne brancusiane di Evans inglobano lo sguardo dello spettatore, risucchiato da grafismi luminosi dalla prima all’ultima opera, ospitata nel Cubo.
Superata la foresta di colonne a Led temporizzate da diverse gradazioni luminose, si trova un omaggio al suo maestro John Cage, Composition for 37 Flutes (in two parts) (2018). Composta da tubi di cristallo che suonano come canne d’organo, l’opera si confronta con i neon sospesi dell’opera adiacente, Radiant Fold (…the Illuminating Gas) (2017-2018), citazione dell’opera di Duchamp. New Forms (after Noh) (2015-2019) comprende una carrellata di tredici grovigli luminosi di tubo al neon rigorosamente bianco. Sono calligrammi misteriosi che attingono alla cultura Giapponese e si inscrivono nello spazio, con gesti lenti, continui e ipnotici. Il percorso espositivo oltre le barriere del suono e dentro gli effetti della potenzialità poetica e teatrale della luce termina nel Cubo, unico spazio con illuminazione naturale, in cui il suono intreccia con lo spazio evocazioni di viaggi dove dal caos germoglia l’armonia. Qui, opere eterogenee, scritte al neon, sculture mobili sospese e istallazioni sonore compongono un’esperienza sensoriale totalizzante. Come con E=C=L=I=P=S=E (2015), la monumentale scritta al neon che descrive la progressione temporale e geografica di un’eclissi di sole su diversi continenti, e C=O=N=S=T=E=L=L=A=T=I=O=N (I call your image to mind) (2010), composta da dischi specchianti, giochi di rifrazioni sospesi e casse direzionali che emettono polifonie composte dall’artista, suoni che sembrano raccolti da un osservatorio astronomico immaginario. Oppure con S=U=T= R=A (2017) e Mantra (2016), dove due coppie di lampadari di vetro soffiato di Murano, dalle forme che provengono dall’archivio storico di Galliano Ferro, emettono luce intermittente secondo uno spartito musicale composto dall’artista, trasmettendo un’indescrivibile sensazione di benessere psicofisico. Lo stato di tensione di sospensione culmina con l’opera T=R=A=N=S=F=E=R=E=N=C=E (Frequency shifting paradigms in streaming audio) (2009), una colonna immateriale, installazione solo audio dove una cassa direzionale posta a pavimento controlla le sette colonne luminose che aprono la mostra. E qui, fluttuanti in una dimensione armonica tra visibile e invisibile, si ode il respiro del Cosmo.
L’articolo è originariamente apparso su LUCE n°330, 2019.