Dal 1946 al 1981, una storia infinita che racconta l’Italia
A me piace il concept design, quello che è talmente chiaro che puoi anche non disegnarlo
Vico Magistretti
L’Italia capace di dare forma alle idee si racconta a episodi, e in occasione del Salone del Mobile è stata inaugurata in Triennale la prima parte del Museo del design italiano, atteso da anni, con una mostra di oltre 200 oggetti-icona dal 1946 al 1981, parte dei 1.600 oggetti della Collezione di Triennale.
Il Museo conferma il primato di Milano nella cultura industriale del progetto, dalla ricostruzione al boom economico, fino al sorprendente collettivo Memphis che ha rivoluzionato i codici funzionalisti e modernisti del passato.
Ospitato nello spazio della Curva che costeggia il Teatro dell’Arte, al piano terra del Palazzo disegnato da Giovanni Muzio nel 1933, affacciato sul Parco, cuore pulsante di Milano, il nuovo museo già prevede, grazie al finanziamento di 10 milioni di euro stanziati dal Ministero dei Beni culturali, nuove acquisizioni di oggetti e il suo ampliamento per un totale di 6.000 mq, attraverso un concorso internazionale, che continuerà il percorso espositivo collegando con un tunnel l’attuale museo alla nuova area. Inoltre è previsto un riallestimento dell’archivio e la costituzione di una “Associazione per il sistema museale del design”, in cui saranno coinvolti Triennale, Assolombarda e ADI – che nell’aprile del 2020 aprirà un altro museo del design in zona Paolo Sarpi, progettato per ospitare gli oggetti vincitori del “Compasso d’Oro”. L’obiettivo non è solo l’arricchimento della Collezione, ma anche collaborazioni con archivi d’impresa, scuole, università e musei.
Progetto dell’Ufficio Tecnico della Triennale, l’allestimento del nuovo museo è didascalico, semplice, volutamente minimale, per valorizzare gli oggetti esposti su piedistalli bianchi. Sulle pareti scorrono le date che hanno segnato la cultura, la politica e il costume italiano dal dopoguerra agli anni Ottanta. Gli oggetti si raccontano anche grazie al materiale d’archivio della Triennale: fotografie, riviste, campagne pubblicitarie, packaging originali, listini prezzi, prototipi realizzati da Giovanni Sacchi e altro.
La mostra, a cura di Joseph Grima, espone oggetti della Collezione Triennale che appartengono alla memoria e cultura collettiva, firmati dai più importanti designer italiani. Sfilano poltrone, caffettiere, sgabelli, macchine per scrivere, lampade e altro ancora. Cose diverse, cariche di contenuti formali e simbolici, che hanno reso la nostra casa più allegra e la vita più bella. C’è Lettera 22, progettata da Nizzoli e Beccio nel 1950, la macchina per scrivere più amata da Montanelli; l’elegante Superleggera di Gio Ponti, del 1955, ispirata al modello di sedia impagliata fabbricata fin dall’Ottocento nella campagna ligure e risolta in 1,7 kg di innovazione; la lampada Arco, 1962, di Achille Castiglioni e Pier Giacomo Castiglioni; Falkland, 1964, di Bruno Munari; Eclisse, progettata da Vico Magistretti per Artemide nel 1965, premiata con il Compasso d’Oro nel 1967.
Il punto di forza del nuovo museo è la semplificazione nella comunicazione del valore degli oggetti che mostrano storia e memoria, suggellando il rapporto tra Milano e il design, senza supporti scenografici o effetti speciali. Le interferenze tra design e arte sono palesi nel Mezzadro dei fratelli Castiglioni, del 1957, un sedile di trattore montato su una balestra, quale efficace dimostrazione di assemblaggio, ironico e funzionale insieme, di pezzi industriali; una nuova seduta, ispirata alla pratica duchampiana del ready-made che ha atteso 14 anni prima di essere apprezzata e messa in produzione. Negli anni Sessanta, nel pieno della società dei consumi, quando impazzano la radio e gli ascolti radiofonici, appare sul mercato Ts 502 di Marco Zanuso, del 1962, un cubo simmetrico che si apre e si chiude; nell’epoca dei giovani, in cui gli oggetti sono di plastica e coloratissimi, è una mini “scultura” in cui stile e funzione convivono allegramente in stile pop. È spiazzante Pantone, del 1966, ideata da Ceretti, Derossi e Rosso, che ha aperto nuovi scenari per il design, seduta fatta con fili d’erba verde artificiale, in poliuretano, in cui si possono trovare posizioni soggettive, lasciandosi avvolgere dalla morbidezza dei materiali. Passando agli anni Settanta, tra oggetti di Franco Albini, Enzo Mari, Nanda Vigo, Gae Aulenti, non poteva mancare la poltrona Proust (1978) di Alessandro Mendini, scomparso di recente, icona Postmodern per il suo mix di citazioni colte rivisitate in chiave ironica, ispirata allo scrittore francese e decorata con stampe “puntiniste” con colori che invadono tutte le sue parti, incluso quelle in legno. È geniale il prototipo della Logos 68 (1973), calcolatrice elettronica da tavolo realizzata dall’Olivetti, con design di Mario Bellini. Il percorso espositivo si chiude con Casablanca di Ettore Sottsass, del 1981: una scultura antropomorfa coloratissima in laminato plastico, allora considerato “volgare”, dalla forma totemica, che mette in discussione i parametri della funzionalità, modificando la produzione del design industriale successivo.
Questa mostra è da guardare e da “ascoltare” senza apparati multimediali, grazie a 26 telefoni Grillo, i telefoni fissi ideati per Siemens da Marco Zanuso e Richard Sapper nel 1966, che il Museo ha trasformato in divertenti audioguide. Basterà alzare la cornetta, aspettare il suono “vintage”, e immergersi nella voce narrante di 25 designer che si sono presi la responsabilità di raccontare la genesi e il fascino dell’oggetto. Perché, come diceva Vico Magistretti, “a me piace il concept design, quello che è talmente chiaro che puoi anche non disegnarlo”.
L’articolo è originariamente apparso su LUCE n°328, 2019.