Arte, vita e realtà s’intrecciano con il teatro, la musica, le azioni, parole e immagini che cambiano a seconda del punto di vista, nella ricerca artistica di Ernesto Jannini (1950, Napoli) all’insegna della molteplicità dei linguaggi come atto creativo rigeneratore, poetico e spirituale basato sulla maieutica grotowschiana, al quale non posso mai mettere la parola fine, scrive l’artista, che vive l’arte come prassi di conoscenza.
Non è impresa semplice riassumere le migrazioni dal teatro alle arti visive, dall’arte alla vita e viceversa di Jannini, attivo dagli anni Settanta, quando partecipa ai laboratori di animazione al Rione Traiano con Riccardo Dalisi e anima il gruppo degli Ambulanti con Annamaria Jodice, Claudio Massini, Silvio Merlino, Roberto Vidali, Giuseppe Zevola, Marta Alleonato e Carlo Fontana.
Jannini, di indole dada-surrealista si presenta alla mostra Napoli Situazionista 75, alla Quadriennale di Roma con azioni poetiche e opere realizzate con calzini colorati.
In occasione di Natalevento, ideata per ravvivare il Natale napoletano con eventi all’aperto, che hanno svelato le attitudini teatrali dell’artista e del gruppo, di operare dentro il tessuto urbano per confrontarsi con la gente, nell’ambito della politica culturale del decentramento di quegli anni, che portò gli artisti dai grandi centri alle periferie, fino alle sue opere recenti.
Alla Biennale del 1976 su invito di Enrico Crispolti, Jannini si presenta all’interno dei Giardini Napoleonici con un Pesce Rosso, fiabesco, colorato, realizzato con un’armatura in vimini e stoffe. Negli anni Ottanta produce grandi Scudi (dal 1984 al 87), strutture leggerissime e solide con vimini che plasma con il fuoco, in cui mescola diversi materiali.

Nel 1987, Jannini si trasferisce a Milano, e apre lo studio nella galleria ex Toselli, dove comincia a riciclare e assemblare pezzi di componenti elettronici, schede elettroniche e microchips che recupera all’interno di macchine fotocopiatrici e computers nei cimiteri dell’elettronica, discariche considerate come “deposito linguistico d’inestimabile valore”, scrive l’artista. Nascono le opere polimateriche in bilico tra artificio e natura che indagano il rapporto tra Arte e Scienza che dovranno convergere verso una nuova sensibilità.
Nel 1990, l’artista partecipa alla Biennale “Aperto 90”, alle Corderie, dove sbalordisce critica e pubblico con una installazione di forte impatto emotivo e scenografico sul tema di Cartesio, ispirata a un immagine tratta da un vecchio libro di Kipling; per passare poi a una ricerca di matrice più concettuale seppure in maniera poetica, indirizzandosi nel corso del tempo verso una riflessione sull’arte come strumento filosofico estetico e antropologico.
L’artista e performer dell’immaginazione, tratta scarti della società post-tecnologica, è affascinato dai Led e microcircuiti tecnologici, fili elettrici, isolatori di porcellana, che considera come reperti archeologici, ricomponendoli per caricarli di nuovi significati e narrazioni in bilico tra fantascienza e realtà, in cui ogni singolo elemento appare combinato in strutture formali minimaliste, simili ma non uguali agli archivi d’informazioni, contenitori di regole scientifiche e ingranaggi di software fantasiosi, il cui l’assurdo del quotidiano sembra logico e gli sconfinamenti tra natura e scienza si combinano tra loro in maniera armonica.

Le opere qui pubblicate vivono di luce, sono di una tensione sacrale come l’installazione site-specific Dyonysus’Placenel foyer del teatro Pacta di Milano (2018), che da il titolo al suo recente libro in cui sono raccolte riflessioni sulle possibilità di variazione combinatoria di elementi diversi, di sistemi aperti, metamorfici, mobili. Specchio di “una totalità dell’essere individuale, politico e sociale”, scrive Jannini, in cui la luce media tra instabilità e mobilità, materia e spiritualità coesistono armoniosamente e dove l’imprevedibile da forma a forme del possibile.