A RIVEDER LE STELLE: INTERVISTA A MARCO FILIBECK, REALIZZATORE LUCI DELLO SPETTACOLO


Lo scorso 7 dicembre, al Teatro alla Scala di Milano era in programma la Prima, il tradizionale appuntamento che inaugura la nuova stagione lirica. Sarebbe dovuta andare in scena Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, ma a poche settimane dal debutto lo spettacolo è stato cancellato a causa della pandemia di coronavirus.  La storico teatro ha deciso di non rinunciare alla sua serata più importante e ha coinvolto il regista Davide Livermore per creare da zero un’opera destinata esclusivamente alla diffusione televisiva, intitolata A riveder le stelle. Un progetto inedito e ambizioso, con cui La Scala ha voluto sperimentare nuovi format e nuovi linguaggi e che merita di essere approfondito, per conoscerne le peculiarità. L’autore ne ha parlato con Marco Filibeck, realizzatore luci dello spettacolo.

Marco Filibeck, foto © Rudy Amisano

La produzione di A riveder le stelle si è svolta in tempi molto compressi. In che modo questa condizione ha influenzato le prove e le le scelte tecniche?
A riveder le stelle è stato una sorta di “miracolo a Milano”. Quando è nato questo progetto,in seguito alla chiusura dei teatri, era appena stata cancellata Lucia di Lammermoor. La Scala ha voluto comunque mettere in scena uno spettacolo per il 7 dicembre, affidandolo a Davide Livermore, così in pochi giorni siamo passati da un’opera annullata a una da creare da zero. La prima sostanziale differenza ha riguardato lo spazio scenico, che non è stato circoscritto al solo palcoscenico, ma si è esteso in zone del teatro sconosciute al pubblico, come la metafisica scala Botta. Abbiamo lavorato seguendo un calendario senza pause e ciascuna scena spesso non poteva essere ripetuta: in questa situazione tutti sapevamo di non poter sbagliare e senza paura, ma con molta fiducia e energia, ce l’abbiamo fatta.

Ai tempi serrati si aggiunge una ulteriore difficoltà, cioè il fatto che A riveder le stelle è uno spettacolo pensato per la televisione, un medium completamente diverso dal teatro.
Credo che Livermore abbia messo in campo tutta la propria conoscenza del linguaggio  televisivo per arrivare al risultato. Dal mio punto di vista, l’esercizio più difficile è stato  concentrarsi sull’immagine dei monitor anziché quella del palcoscenico. Creare l’immagine di un prodotto teatrale esclusivamente per la televisione è, per un lighting designer di teatro, una modalità  nuova  che mi ha fatto  riflettere molto su quali sviluppi potrebbe avere. Ai miei studenti dell’Accademia cerco di trasmettere l’importanza di saper osservare e cerco di formare la capacità della visione, gli occhi sono il nostro strumento di lavoro. La visione è quella che rispetta lo schema più antico di un teatro: spettatori in platea e artisti sul palco. Tiene conto di una distanza fisica e di un punto di vista univoco, cioè quello di ogni singolo spettatore seduto al proprio posto. Lavorare per la televisione ribalta completamente questa impostazione perché obbliga ad un esercizio difficilissimo: non guardare mai direttamente la scena. In questo caso, infatti, è controproducente perché si tende ad intervenire per correggere qualcosa che si vede in diretta, ma che non corrisponde a ciò che si vedrà in televisione. Per ridurre al minimo questo tipo di interferenze abbiamo costruito una regia in quinta, in modo da concentrarci solo sui monitor. È stato un modo di lavorare del tutto nuovo, dal quale ho imparato molto.

Con A riveder le stelle avete sperimentato molto. Penso ad esempio al grande ledwall presente in numerose scene. Non c’era il rischio che un elemento scenico così grande togliesse importanza alle luci?
In generale, quello che ho sentito di dover fare in questo spettacolo è stato portare il linguaggio del teatro in un contesto che era più vicino a quello cinematografico. Le grandi superfici Led, per loro natura, tendono a dominare la scena  e sono di grande impatto. In questo spettacolo le immagini sono state fondamentali per lo sviluppo della narrazione, altre volte lo sono meno. Si tratta sempre di segnali luminosi, ma è qualcosa di molto diverso dalla luce intesa nella sua poetica teatrale. Consapevole di questo contesto – il mio obiettivo è stato quello di realizzare un’illuminazione di alta qualità, costruita non tanto sull’aspetto emotivo, quanto piuttosto per il bilanciamento e l’equilibrio rispetto alle telecamere che avrebbero “letto” quella luce. È stato importante assecondare con le luci i colori delle immagini e  in alcuni casi il bianco e nero, con un’immagine chiara, nitida e con le caratteristiche  proprie del linguaggio teatrale.

Avere un ledwall così grande alle spalle dei cantanti ha creato dei problemi dal punto di vista tecnico?
Non è stato facile contrastare l’effetto silhouette generato da questa potentissima sorgente. Per farlo ho avuto bisogno di un alto volume luminoso, che aiutasse a contrastare il ledwall e a modellare le figure; ho utilizzato delle luci di taglio molto potenti, per scolpire i contorni degli artisti e staccarli dal fondo. Ho scelto di posizionarle in basso, tra le quinte, per ottenere un risultato migliore e ho potuto farlo grazie alla maggiore libertà che in un allestimento tradizionale non avrei avuto. In sintesi, l’impianto luci prevedeva due impostazioni molto diverse: una tipica da balletto, realizzata con i tagli dal basso; la seconda più cinematografica, fatta con daylight di alta potenza.

 

Questo spettacolo può rappresentare un modello a cui ispirarsi per ripensare il modo in cui mettere in scena opere liriche, finché la situazione non cambierà?
Secondo me sì, perché stiamo attraversando una fase in cui non bisogna lasciarsi andare alla nostalgia. Tutti desideriamo ritornare a fare spettacoli con il pubblico, però in questo momento non possiamo permetterci di rimpiangere il passato. Credo che il mondo dell’opera debba essere aperto a sviluppare nuove idee, come abbiamo fatto alla Scala con A riveder le stelle. Ci sono altri esempi: a Roma Mario Martone ha messo in scena un Rigoletto sotto forma di “opera film”, come lui stesso l’ha definita. Uno spettacolo che riconfigura gli schemi tipici dell’opera. Sicuramente un tentativo giusto di proporre nuovi codici interpretativi. A mio avviso non ha senso continuare a pensare gli spettacoli senza il pubblico facendo finta che ci sia. Cito, ad esempio, il Festival di Sanremo: un’edizione senza pubblico era l’occasione per sperimentare, provare qualcosa di diverso. Invece si è preferito rispettare la tradizione e il canone classico del Festival. Penso che l’unica cosa imprescindibile sia il luogo fisico della rappresentazione che è la forza dell’incontro. La Scala come l’Ariston per quello che rappresentano non potrebbero essere sostituiti, tutto il resto invece per me si può riscrivere. Dobbiamo trovare la forza per accompagnare questa platea moltiplicata, oltre i nostri monitor.

Qual è il futuro dell’opera? È possibile fare delle previsioni?
Vedo due aspetti. Da un lato, come ho detto prima, è necessario sperimentare di più per cercare di produrre qualcosa di diverso dal teatro convenzionale, perché quello, per adesso, non è realizzabile. C’è un grande desiderio di “tornare alla normalità”, che però costituisce un blocco per tutti. D’altro canto, però, tutti i teatri si stanno rendendo conto che la diffusione televisiva e in streaming sono strumenti a cui non potranno più rinunciare. Credo che la registrazione degli spettacoli e la loro diffusione sui media sarà qualcosa che rimarrà in futuro, Una grande risorsa aggiuntiva a disposizione dei teatri per diffondere maggiormente ciò che con una parola forse troppo generica, definiamo Cultura.