Conversazione con Valerio Tiberi
È nato a Spoleto, quanto ha influito nelle sue scelte artistiche e professionali vivere nella città palcoscenico del Festival dei due Mondi?
Essere nato a Spoleto è stato fondamentale per la scelta della mia professione; da piccolo, con i miei genitori, andavo a vedere gli spettacoli del festival, dapprima i balletti e poi opera e prosa. La mia passione è nata proprio da quelle esperienze. Ricordo di aver visto in prima italiana il solo di David Parson illuminato con lampada strobo, dove il pubblico lo vedeva sempre in sospensione; ecco, direi che posso affermare che da lì è iniziato tutto.

Valerio Tiberi
Quali sono state le sue prime esperienze nel mondo della luce?
A 18 anni, ovvero appena la legge italiana me lo ha consentito, ho chiesto di lavorare al festival come tecnico luci e da lì ho iniziato realmente le prime esperienze nel mondo luce. Ricordo la prima opera a cui ho lavorato, con le luci del compianto maestro Sergio Rossi.
Chi sono stati i suoi riferimenti e i suoi maestri?
In primis devo e voglio citare Marco Filibeck, light designer internazionale e residente al Teatro alla Scala. L’ho incontrato nel 2000, e oltre a essere stato un mio maestro di luce lo è anche stato nella vita. Prima di incontrare Marco avevo collaborato come assistente con Guido Levi, Sergio Rossi e Gigi Saccomandi, la storia dell’illuminazione teatrale in Italia. Come ispirazione non posso non citare Bob Wilson, James Turrell, Jean Kalman, Donald Holder e Kevin Adams, tra loro stili e destinazioni varie, perché credo che la contaminazione tra ambienti, culture e stili sia fondamentale per alimentare costantemente lo studio e la cultura della luce.
Nella sua lunga esperienza al Teatro alla Scala, c’è un progetto o una specifica collaborazione con un regista o coreografo che l’ha indelebilmente segnata?
Ho avuto la fortuna e il privilegio di lavorare internamente come assistente light designer per 6 anni. Oltre a citare di nuovo Marco Filibeck come maestro, ho avuto appunto la fortuna di collaborare con altri grandi professionisti della luce come Jean Kalman e con registi del calibro di Robert Carsen, David McVicar e Mario Martone.

Nel panorama italiano è tra i pochi lighting designer che spaziano con grande respiro dalla prosa alla lirica e al balletto, fino a giungere al musical. Da cosa nasce questa sua estrema versatilità?
Per me è stato sempre un obbiettivo avere la capacità di spaziare tra i vari generi, cercando unicità anche in questa qualità. Le esperienze che si intersecano e si scambiano sono fonte di ispirazione, e portare nell’opera alcune dinamiche dei musical, o viceversa, è fondamentale. Inoltre, ispirandomi ai maestri anglosassoni, credo che questa debba proprio essere una caratteristica di questo mestiere, il poter spaziare tranquillamente tra i vari generi, uscendo a volte dal teatro per entrare nell’architetturale, mostre, fashion show.
Il musical è un genere che la vede protagonista di numerose produzioni di successo, e penso che il successo di alcuni titoli derivi anche dal suo importante contributo…
Il musical contiene tutte le caratteristiche del light design teatrale e richiede grande preparazione ed esperienza per stare a livelli internazionali. Il primo spettacolo che cito non è certo il più riuscito, ma è quello che ha realmente segnato il mio inizio in questo settore ed è The Producers, che ho illuminato per la Compagnia della Rancia nel 2006. Fu il mio primo grande spettacolo musicale, dove ho iniziato una lunga collaborazione con Saverio Marconi. Il secondo è l’ultimo, che è andato in scena in questi giorni: Ghost, con la regia di Federico Bellone, che ha segnato la prima contemporanea messa in scena sia in Italia che in Spagna.Non posso però non citare musical come Frankenstein jr nel 2012 e Cabaret nel 2014, per i quali ho vinto due premi come miglior disegno luci di musical in Italia in quelle stagioni. Inoltre Mary Poppins, probabilmente lo spettacolo di maggior successo nella storia del musical in Italia.

Di tutte le forme di spettacolo e di progetto illuminotecnico applicato, quale predilige? Quale sente che le appartiene, che le consente di esprimere la sua personalità più autentica, e perché?
Il musical è quello che mi permette di esprimere in pieno le mie caratteristiche: dinamica, pulizia, storytelling e surrealismo, sempre al servizio del racconto. Nell’opera mi piace di più sperimentare, quando la regia e la scena lo permettono, utilizzando angoli di incidenza e luminosità a volte anche tecnicamente esagerati. Credo che la prosa, per la quasi assenza della musica, sia il genere più statico, ma non meno importante. La danza, per l’assenza della voce, richiede invece un grande contributo alla luce, che deve amalgamarsi con il racconto o solo con la coreografia. Anche se il musical al momento è il mio core business, tutti i generi sono fonte di sfida e stimolo.
Che tipo di progettualità ha richiesto la sua collaborazione con Roberto Bolle, durante gli attesissimi tour di Bolle and Friends, considerando la grande diversità e varietà di teatri e location in cui Bolle esegue i suoi spettacoli e tenendo conto anche delle composizioni dei programmi che mettono insieme titoli e coreografi molto diversi tra loro?
Ho iniziato a lavorare con Roberto nel 2008, come assistente di Marco Filibeck, e dal 2014 per questioni di impegni sono subentrato come light designer e responsabile tecnico. Ogni gala con Roberto Bolle è uno spettacolo a sé; abbiamo ormai in repertorio quasi 100 tra passi a due, soli e passi a tre, e Roberto è costantemente alla ricerca del nuovo e dello sviluppo tecnologico della danza. Per esempio, quando si passa da un passo a due del Don Chisciotte a il solo Two, dove la luce danza con il ballerino, in fase progettuale è sempre difficile ma stimolante far convivere le varie esigenze. Nell’ultimo tour estivo abbiamo sperimentato un nuovo solo con Roberto, coreografato da Massimiliano Volpini, dove utilizziamo un laser montato sulla staffa di un proiettore motorizzato che a sua volta è montato su un crane manovrabile manualmente. Riuscire a sincronizzare il tutto nelle tre dimensioni è molto articolato e complesso. Sono molto soddisfatto del risultato, ma la soddisfazione più grande è stata quella di far diventare la tecnologia un partner del balletto, senza sentirne la presenza tecnica ma facendola esprimere come generatore di emozioni.
Tenta di stabilire un dialogo attraverso la luce con il Genius loci dei teatri e delle location in cui lavora? Al di là del soggetto e della forma di spettacolo che mette in scena, che influenza esercita sul suo lavoro lo spazio scenico?
Lo spazio che ospita gli spettacoli è il vincolo più grande che si ha, ma bisogna sempre affrontare il progetto considerandolo un vincolo positivo. Ovviamente limitarsi sulle posizioni è sempre complicato, perché avere ampia disponibilità di angoli di incidenza aiuta in qualsiasi spettacolo. Un esempio è il teatro lirico all’italiana, che vincola molto le posizioni in sala, anche con angoli molto bassi, mentre i teatri più moderni hanno strutture più versatili. Gli spazi all’aperto senza graticcio o luce dall’alto ti obbligano a lavorare molto da terra o da lontano, e questo ti mette di fronte a delle scelte importanti. Nella mia esperienza, in spazi come l’Arena di Verona la miscelazione dei vari colori diventa più complessa, avendo limitati angoli di incidenza. Quindi, ci deve essere una scelta ancora più appropriata e studiata sulle gelatine o le palette colori da usare nell’impianto.
Ha un suo concetto di “luce giusta”, una visione della luce che pensa la contraddistingua?
Una luce si definisce giusta quando viene ricordata dallo spettatore, ma nello stesso tempo rispetta lo spazio e lo spettacolo. Preferisco parlare di luce giusta piuttosto che di luce bella, perché credo che appunto una luce migliore sia una luce giusta anche se non dovesse essere bella. Nel tempo ho imparato a far diventare giuste anche luci apparentemente brutte.
Cromie e tipologie di corpi illuminanti che predilige e che costituiscono il DNA della sua poetica visiva e compositiva?
Amo inevitabilmente la luce al tungsteno, credo che il filamento possa rendere poetico tutto. Ma abbiamo dovuto imparare a lavorare prima con luci a scarica e oggi con luci Led. Ho imparato ad amare la luce Led grazie anche ai progressi che l’hanno resa sempre più efficiente; prediligo le sorgenti multicolor, che credo garantiscano una maggiore qualità del colore. Comunque, proiettori come gli Svoboda o i Beam Light o i Par sono impossibili da replicare, e spero veramente non vengano mai eliminati dal commercio.
A quali titoli sta lavorando?
Ho appena debuttato a Roma con Ghost e a Oviedo con Lucia di Lammermoor. In febbraio seguirò un progetto molto affascinante di un balletto su Beethoven ad Astana, con un team creativo internazionale. Successivamente in Korea per La fanciulla del West, e di nuovo in Italia con un nuovo musical.

Nel nostro lavoro si combinano essenzialmente Tecnologia e Arte; nella sua ricerca, quali equilibri, reazioni e relazioni tenta di stabilire?
Credo nel rispetto che la Tecnologia deve all’Arte stessa. La sfida è sempre quella di utilizzare la tecnologia a sostegno dell’arte, darle un’anima, senza sfruttarne solamente l’aspetto tecnico. La migliore tecnologia credo sia quella che non si percepisce come tale, ma che sia solamente in grado di far provare agli spettatori emozioni definite dai designer.
Può svelare ai lettori di LUCE un suo sogno nel cassetto, una collaborazione a cui ambisce o un Teatro in cui vorrebbe lavorare e confrontarsi?
Il mio sogno nel cassetto rimane ancora di illuminare un musical a Broadway, e chissà che nel prossimo futuro non ci sia questa occasione.
L’articolo è originariamente apparso su LUCE n°331, 2020.