Readymade o copia della “foresta” di lampioni luminosi di Chris Burden?


Chris Burden
Chris Burden, Urban Light, 2008, Los Angeles County Museum of Art, The Gordon Family Foundation's gift to "Transformation: The LACMA Campaign" © Chris Burden/licensed by The Chris Burden Estate and Artists Rights Society (ARS), New York, photo © Museum Associates/LACMA

Scomparso nel 2015, Chris Burden, artista statunitense noto per le sue temerarie performance negli anni Settanta, nel 2008 ha realizzato Urban Light, una scultura composta da 202 vecchi lampioni in ghisa, di sedici diverse forme,  che un tempo illuminavano qualche strada della California. L’opera è  esposta all’ingresso del Los Angeles County Museum of Art, realizzata per l’inaugurazione, e le luci dei lampioni si illuminano con pannelli solari che si accendono al tramonto. Diventata simbolo della città, la scultura urbana ricalca la forma di un tempio classico che con la luce si proietta metaforicamente in un eterno futuro. 

Nel 2014, Burden presenta Light of Reason, opera commissionata dalla Brandeis University, Waltham, Massachusetts, per il proprio museo Rose Art Museum. L’opera è la riproduzione di Urban Light composta da tre file di 24 lampioni vittoriani puntati sull’ingresso del museo, e diventata in breve tempo spazio di eventi all’aperto degli studenti del campus.

Un’altra scultura Love Light molto simile a quella di Burden, ma il numero dei lampioni non è lo stesso, è stata realizzata a Rabbit Towon, Indonesia, diventando un’attrattiva di un parco a tema, così gli eredi di Burden, hanno querelato il proprietario del parco per plagio. 

Ne abbiamo scritto perché si parlava di lampioni, oggetto di arredo urbano e readymade per Buren, simbolo del progresso, ma sappiamo che le copie nell’arte di ieri e di oggi non sono una novità, infatti dall’inizio degli anni Ottanta, molte opere d’arte sono ispirate a forme già esistenti, rivisitate in altri circuiti culturali e finalità, trasformandole in un prodotto di consumo della cultura digitale, elaborando oggetti già in circolazione e iconizzati da Google. Per esempio Maurizio Cattelan con Senza Titolo (Zorro), la tela che riproduce la famosa di Zorro nello stile dei tagli di Lucio Fontana.  Angela Bulloch, Tobias Rehberger, Carsten Nicolai, Sylvie Fleury, John Miller e tanti altri artisti, s’ispirano invece a forme minimali, pop -concettuali di opere d’arte esistenti. 

La domanda allora è: piuttosto che concentrarsi sull’ideazione del nuovo, di una forma originale e autonoma, cosa si può fare con quello che già si conosce? Se già Marcel Duchamp ci provocava con la sua domanda l’arte non è forse “un gioco tra uomini di tutte le epoche?” Una risposta potrebbe essere che queste  “post produzioni” sono in ogni caso elementi di conoscenza dei linguaggi plurimi dell’arte contemporanea da interpretare come un network di segni e nuovi significati per le generazioni internettiane, già avvezze alla manipolazione di informazioni e immagini che costituiscono la nostra cultura visuale. E, riflettendo sull’arte, chi oggi può capire esattamente qual è la differenza tra l’opera d’arte e il prodotto artistico, in cui vale non la forma in sé, ma l’uso che se ne fa e dalla sua medializzazione in rete?