Mario Cucinella. Giocare con la luce del sole


Unipol, Milano 2015_Render by MIR
Unipol, Milano 2015, Render by MIR

Dialogo intimo tra uomo, spazio e illuminazione

Credo che dovremmo avere molti più lighting designer in Italia, sono una specie quasi protetta. Guardandomi in giro ho notato che non c’è una bella illuminazione urbana. Secondo me ci si concentra troppo sulla parte tecnica e poco su quella creativa, invece bisognerebbe interpretare meglio le città dal punto di vista della luce.

Ci vuole raccontare il suo personale rapporto con la luce?
Ho sempre avuto un rapporto di empatia molto forte con la luce. Ho cercato di sviluppare una relazione sostanziale tra lo spazio costruito e la luce, soprattutto quella naturale. All’interno di un progetto la luce non deve essere solo una componente quantitativa ma soprattutto qualitativa: sono convinto che l’effetto benefico dell’illuminazione naturale sia uno dei principi qualificanti dell’architettura. Se gli edifici hanno un buon rapporto con la luce, la qualità della vita all’interno di questi aumenta. Il nostro lavoro è dedicato alla costante ricerca di questo rapporto, soprattutto in edifici per uffici o collettivi come scuole, asili e ospedali. Il rapporto luce/spazio costruito deve essere strettamente connesso al ritmo della giornata, alla quantità di luce, alle conseguenze emotive e psicologiche che ci legano a questo elemento fondamentale. Un’architettura che nega questa relazione non mi sembra sia interessante; noi lavoriamo affinché la costruzione non diventi una barriera, un filtro negativo, ma puntiamo a un’architettura che amplifichi la luce, che instauri un rapporto di grande empatia tra uomo, spazio e illuminazione.

Cinque progetti a Milano: HQ Unipol, HQ Coima, Ospedale San Raffaele, Città della Salute e Museo Fondazione Rovati. Cinque declinazioni della stessa idea di architettura sostenibile?
Sì, sono cinque declinazioni della stessa idea d’architettura e questo è dovuto anche al fatto che affrontano temi diversi. C’è quello dell’ufficio, che ha un rapporto molto stretto con il ciclo della luce naturale che deve entrare in relazione con l’illuminazione artificiale e che, in qualche modo, nega il ciclo della luce solare. La luce artificiale ha una temperatura e un’intensità costante e deve colloquiare con quella naturale. Si tratta di un dialogo tra un aspetto tecnologico e uno totalmente naturale. Per quanto riguarda gli ospedali, la luce è un elemento che va filtrato e governato per rispondere a particolari condizioni di vita. Il tema della buona luce in ambito ospedaliero è una delle componenti principali per il benessere psicologico dei degenti. Anche nel museo la luce è importante: qui è prevista poca luce perché è legata a un’esperienza storico/artistica, gli Etruschi, che vedeva nel buio l’accesso a un altro mondo. Nella parte ipogea c’è una luce unicamente artificiale e molto ridotta per rispettare questa concezione e per accentuare l’idea di un luogo misterioso. È importante saper declinare in maniera corretta un elemento delicato come la luce, che deve avere delle intensità diverse in funzione di luoghi differenti.

Luce naturale e luce artificiale sono in dialogo costante. One Airport Square ne è un esempio: ombre e luci diverse definiscono l’edificio e la sua percezione. Quale rapporto instaura con i lighting designer?
Lavoriamo spesso con i lighting designer perché, per trasformare la nostra idea di luce, abbiamo bisogno di figure che professionalmente sono cresciute in quest’ambito inoltre hanno una maggiore sensibilità narrativa sul tipo d’illuminazione da impiegare. Il loro apporto, come per le altre figure esterne, è rilevante per il risultato finale. Credo che dovremmo avere molti più lighting designer in Italia, sono una specie quasi protetta. Guardandomi in giro ho notato che non c’è una bella illuminazione urbana. Secondo me ci si concentra troppo sulla parte tecnica e poco su quella creativa, invece bisognerebbe interpretare meglio le città dal punto di vista della luce. Entrando nello specifico del progetto One Airport Square, qui c’era la necessità di un attento controllo della luce naturale, dato che in Ghana questa ha una grande incidenza termica, e, in generale, sul funzionamento della struttura. L’edificio gioca con il sole zenitale e le grandi terrazze a sbalzo che ombreggiano la costruzione. Davanti a un problema l’architettura trova sempre una soluzione. In questo caso abbiamo usato una griglia obliqua, che dà una sensazione d’instabilità e crea un interessante gioco di luci sulla facciata. Il dialogo tra il giorno e la notte reca due messaggi diversi, uno dinamico e uno molto statico, entrambi con differenti attitudini scenografiche. 

Uno degli oggetti di design progettati dallo Studio è la famiglia di proiettori Woody per iGuzzini. Ce ne vuole parlare?
È un progetto nato da una precisa richiesta aziendale: realizzare il primo proiettore con soli due pezzi, una scocca e un tappo (la lente). L’Azienda intendeva costruire un proiettore con un pezzo in meno, che in termini di logica produttiva significa un importante abbattimento dei costi e dei tempi nel processo di costruzione. Poi c’è “l’idea di famiglia”, di un proiettore che, al variare delle dimensioni, copra tutta la gamma di opportunità d’illuminazione. L’idea della famiglia mi è sempre sembrata affascinante, un po’come per la famiglia degli archi, dal violino alla viola al basso. Sono oggetti che hanno la stessa funzione ma che la declinano in modi diversi. Questo progetto è stato molto interessante, sia sul versante produttivo sia su quello operativo e illuminotecnico. Prodotti come questo hanno un grande contenuto estetico, oltre che funzionale: questo è il valore aggiunto che definisce molti prodotti italiani.

La luce nelle sue architetture va oltre alla semplice illuminazione, ha funzione scultorea, emotiva. La copertura per l’ARPAE, la cosiddetta quinta facciata, è paradigmatica. Come nasce?
Il progetto è per l’ARPAE di Ferrara. Ci è sembrato necessario che l’edificio stesso raccontasse il rapporto tra i diversi elementi ambientali e che rappresentasse un’idea nuova di edificio pubblico. Costruire edifici pubblici in legno e con questa attenzione in Italia è molto raro, e poiché questi sono una prima forma di educazione e di comunicazione ci è sembrato corretto raccontarlo con la materia. L’ARPAE è un edificio totalmente costruito in legno, tagliato da foreste controllate, attento al tema delle materie prime rinnovabili e certificate. Questo edificio ha un particolare rapporto con la luce, perché l’illuminazione artificiale viene accesa solo nel tardo pomeriggio, anche in inverno. L’idea forte è che, dentro l’edificio, la luce venga amplificata grazie ai condotti di luce o camini sulla copertura, i quali moltiplicano la quantità di luce interna, soprattutto quella zenitale, molto più efficace di quella orizzontale. I camini, oltre a portare luce all’interno, sono anche lo strumento principale per la ventilazione naturale dell’edificio. Siamo convinti che gli edifici pubblici debbano essere portatori di messaggi d’innovazione: è il ruolo che hanno sempre avuto nella storia, dunque è necessario raccontare “chi siamo” attraverso questi edifici.

Materiali, tecnologia, ricerca e luce. Quali sono le prime suggestioni che ascolta prima di iniziare a progettare?
Domanda difficile. I processi creativi non sono processi codificabili razionalmente. Nel nostro caso lavoriamo con quest’idea di empatia creativa, l’idea che l’architettura risponda all’ambiente, attraverso un dialogo. Negli ultimi anni si è perso il rapporto tra architettura e natura. Il nostro sforzo è sempre stato quello di confrontarci con i diversi fattori ambientali presenti e con il contesto climatico. Il nostro processo creativo viene anche governato da elementi concreti e razionali: questi fanno sì che ci sia una comprensione esatta del luogo e delle sue condizioni contestuali e che si instauri quell’empatia che, utilizzando la creatività, ci consente di fornire una risposta corretta. Quello che abbiamo intrapreso non è un percorso semplice, non lascia spazio per il formalismo fine a sé stesso, cerca sempre di trovare un legame tra architettura e ambiente, tra la storia dell’umanità e il suo rapporto con il mondo.

L’articolo è originariamente apparso su LUCE n°319, marzo 2017.