Quali sono stati i tuoi esordi in teatro? Attraverso quali percorsi ti sei formato?
Ho cominciato al Teatro di Via Speroni a Roma, grazie al padre dei miei migliori amici, regista nella compagnia del quartiere. Mi disse: perché non vieni pure tu? Potresti fare l’attore… L’attore no grazie, magari il tecnico.
Così comincia la mia avventura. È stato un susseguirsi di occasioni non cercate ma prese al volo quando mi si presentavano. Nel ‘95 ho conosciuto la regista e performer Ilaria Drago: cercava un tecnico per il suo spettacolo… Andai a vedere una prova e già scendendo le scale per arrivare al teatro-cantina mi resi conto che stavo entrando in un mondo diverso: la sua capacità di portare il suo teatro, il suo modo, l’emozione che mi ha trasmesso. È scoccata subito una scintilla. Era quello che volevo fare nella vita: essere parte di quella magia e fare sì che anche altri potessero provare quello che avevo provato io. Dalla nascita di Fortebraccio Teatro collaboro anche con Roberto Latini. Mi ritengo molto fortunato di lavorare con tutti e due. Sono molto diversi ma simili: sono puro teatro, genialità creative che brillano sul palco. Ho avuto anche la grande opportunità di essere l’elettricista di Maurizio Viani nella Compagnia di Leo de Berardinis, con cui ho potuto girare nei più grandi teatri d’Italia. Lavorare poi con la compagnia di danza Sistemi Dinamici Altamente Instabili mi ha dato un punto di vista differente dell’uso delle luci. Uno scambio molto importante per me: loro mi hanno portato verso l’esplosione della luce in tutte le sue possibilità e io le ho avvicinate al buio e al corpo che pulsa con la luce.

Che cosa pensi riguardo alla formazione del ruolo del lighting designer teatrale in Italia? Conosci realtà in ambito formativo importante? O la classica gavetta rimane ancora l’unico percorso valido per formarsi?
Ho sempre avuto difficoltà a definirmi un light designer. Il mio lavoro comincia dall’ideazione delle luci dello spettacolo, continua nel montaggio e prende forma definitiva nella replica. La luce è come un attore in scena: ha il suo copione, ma ogni sera è unica e irripetibile. Non ho fatto scuole, non perché in assoluto ne sia contrario, credo però che alcune cose si possano imparare solo con l’esperienza. Per me i tre anni trascorsi al fianco di Maurizio Viani sono stati fondamentali. Spesso rimanevo incantato nel guardarlo muovere la luce. Mi diceva sempre: “Non posso insegnarti nulla tranne la pazienza, ma prendi tutto quello che puoi con gli occhi”. Forse non poteva insegnarmi niente, ma io da lui ho imparato moltissimo. Il senso per me è capire che anche la luce ha un respiro, e ognuno deve trovare il suo modo di respirare.
Quali esperienze ritieni fondanti nella visione del tuo lavoro di creatore di Luci per il teatro?
Il segreto è non perdere mai la curiosità, sapere che c’è sempre qualcosa di nuovo che posso imparare, lasciarmi la possibilità di sorprendermi e vivere completamente la bellezza di quello che sto facendo. Non è cosa fare, ma come: riuscire a essere presenti. Può sembrare banale, ma quando ti succede ti rendi conto quanto spesso siamo altrove. Non è quante luci ci sono ma come le usi. Non è a che intensità devi arrivare ma come ci arrivi, come la luce nasce dal buio e come cresce fin dove è necessario in quel momento. La luce ha la capacità di trasformare lo spazio ma anche di crearlo dal nulla. Quando faccio le luci per uno spettacolo che non porterò in scena io, il lavoro più importante è far comprendere l’idea a chi se ne prenderà cura. Non è possibile sbagliare se si ha chiaro il senso e ci si concede la possibilità di emozionarsi e divertirsi. La luce è un mix di matematica e poesia.
In che modo ti sei confrontato con la regia e la scenografia dello spettacolo teatrale Assassina di Randisi e Vetrano?
La scena di Mela Dell’Erba è stata molto stimolante, perché pur essendo molto definita, precisa e ricca di particolari, ha la capacità di essere altro. Lo spettacolo si svolge nel corso di una notte, ma ci sono diversi momenti di astrazione: il teatro è in grado di trasportarti fuori dal tempo e dallo spazio, e le luci sono il più valido aiuto per raggiungere questo scopo.
Com’è nata l’idea del ritratto dei genitori dei protagonisti, che appaiono sul fondale dal nulla, illuminati da una luce calda e pastosa come all’interno di una pittura di Jusepe de Ribera?
Nel testo di Scaldati i genitori erano in una foto incorniciata; l’idea di metterli in un quadro è nata da Enzo Vetrano e Stefano Randisi, mentre la cornice è stata immaginata da Mela. A me, il compito di trovare il modo di dare risalto alla cornice e il divertimento di farli apparire in chiaro scuri e tagli.
Sei il lighting designer di lungo corso della compagnia Fortebraccio Teatro, quali sono gli elementi estetici e tecnici che al meglio hai sviluppato collaborando stabilmente a fianco di Roberto Latini, regista e anima della compagnia?
Quello che ho imparato lavorando con Roberto è che il teatro è qualcosa di vivo. La trasformazione è inevitabile e necessaria. Uno spettacolo cresce e si trasforma con noi, pur rimanendo sé stesso. Non bisogna affezionarsi, avere la capacità di lasciare andare quello che c’è servito ma che non funziona più, per dare nascita al nuovo.
Oltre a progettare e allestire le creazioni di Latini, segui le tournée della compagnia. In cosa si traduce quest’aspetto nella pratica quotidiana del lighting designer? Che cosa succede quando esegui ogni sera le luci di uno stesso spettacolo, ripetendolo e duplicandolo all’infinito in teatri diversi?
Questo è un punto fondamentale per me: capire il senso della luce, come si relaziona con chi sta in scena e con lo spettacolo tutto, in modo da poter riproporre quel senso in spazi differenti e, a volte, anche con mezzi tecnici ridotti. Spesso è una vera e propria sfida riuscirci, ma questo mi ha permesso di imparare a trovare soluzioni: so dove voglio arrivare, devo solo trovare la strada giusta. Ma quando lo spettacolo inizia è come una magia, e tutto torna e prende la sua forma.

Parliamo di corpi illuminanti teatrali a LED e di proiettori motorizzati. Il tuo lavoro in che modo si rapporta con le possibilità tecniche ed estetiche che offrono queste tecnologie in continua evoluzione? Cosa implica nella tua estetica il trapasso dalla poesia della luce a incandescenza all’elettronica del diodo?
Io appartengo alla vecchia scuola: amo l’incandescenza e non programmare in console ma lavorare manualmente. Con questo però non sono chiuso alle nuove tecnologie, mi piace farmi contaminare. Vorrei avere più tempo e fondi per poterle studiare e capire come usarle con un senso valido per me.
In questo momento lavori a una produzione del Piccolo Teatro di Milano, Il teatro comico di Goldoni, diretto da Roberto Latini. Puoi svelare ai nostri lettori alcune anticipazioni a proposito di questo importante debutto?
Nessuna anticipazione, ma il consiglio di andare a teatro come sempre si dovrebbe: pronti ad emozionarsi nell’incontro con lo spettacolo.
Quale spazio, luogo o architettura ritieni speciale nell’osservare il manifestarsi della luce?
Mi piace guardare il cielo. In ogni momento della giornata ha la capacità di sorprendermi con le sue trasformazioni. C’è sempre molto da imparare dal Sole e dalla Luna.
L’articolo è originariamente apparso su LUCE n°323, marzo 2018.