A partire dalla fine degli anni ‘80, in Italia, nuovi gruppi teatrali diedero vita a una nuova corrente che venne identificata in “Teatro di ricerca”. Giancarlo Cauteruccio, Barberio Corsetti, Mario Martone, Federico Tiezzi, Memé Perlini, Giuliano Basilico e Romeo Castellucci innescarono con gli spettacoli creati con le rispettive compagnie un processo di contaminazione dei linguaggi della messa in scena che oggi investe a pieno anche l’ambito dell’Opera. Quali sono le conseguenze di questo processo nell’estetica e nella tecnica di illuminazione dello spettacolo nelle sue diverse espressioni?
La parola contaminazione mi piace molto perché aiuta a definire questo importante processo che coinvolge la luce in tutti i suoi linguaggi. Fino a una ventina di anni fa, i diversi mondi della moda, del cinema, della pubblicità, del teatro e della televisione sviluppavano le loro tecniche della luce in modo isolato e settoriale. Ciascuno seguiva un percorso proprio, viveva la propria realtà e difficilmente si creava una interazione. Penso che le tecnologie attuali costituiscano quel terreno comune che consente la condivisione delle esperienze, e che le stesse tecnologie si possano sviluppare attraverso questa condivisione e contaminazione. Per fare alcuni esempi: i moving light per l’effettistica, tanto utilizzati nei programmi di intrattenimento televisivo, sono gli stessi utilizzati nel live dei concerti, oppure le scenografie di luci dei talkshow, che sono ormai parte anche di molti allestimenti teatrali. Anche la Moda, negli ultimi anni, ci mostra sfilate con una qualità di immagine e soluzioni molto vicine alla forma teatrale. E ancora, l’illuminazione architetturale che, attraverso un utilizzo dinamico della luce e del colore, sviluppa nuovi linguaggi e poetiche. Tutte testimonianze del travaso di idee e di tecniche e di un movimento costante di “andata e ritorno” del know-how settoriale che sta avvicinando i singoli linguaggi della luce verso una nuova universalità tecnica ed espressiva.
Contaminazione e quindi ricodifica dell’estetica e delle tecniche di illuminazione dello spazio scenico?
Direi di sì, ma non solo. In teatro, strumenti apparentemente estranei vengono utilizzati sfruttandone le caratteristiche peculiari. Un esempio del recente passato sono i proiettori di alta potenza “daylight”, in uso nel cinema, il cui utilizzo in teatro ha cambiato radicalmente tecniche e linguaggi. O le lampade fluorescenti per l’illuminazione di spazi destinati al lavoro e allo studio, che attraverso la dimmerazione trovano una modalità completamente diversa da quella per cui sono state prodotte. C’è, a mio parere, un lavoro di ricerca che va segnalato.

Penso che in Europa tutto abbia avuto inizio dalle ricerche pionieristiche di Adolphe Appia ed Edward Gordon Craig, per quanto riguarda il concetto di scenografia moderna; una ricerca portata alle estreme conseguenze dalle applicazioni integrate di scenografia e luce sviluppate dal padre della scenografia contemporanea Joseph Svoboda.
Il lavoro di ricerca di un genio quale fu Svoboda è la testimonianza di come la ricerca tecnologica e la sperimentazione abbiano consentito al teatro lo sviluppo di nuovi linguaggi che, rompendo le barriere settoriali, si sono poi diffusi e ulteriormente determinati. Basti pensare alla sua intuizione nell’utilizzo delle immagini proiettate sulle scenografie: immagini fisse, non dinamiche, diapositive di grandi dimensioni. E pensiamo alle installazioni video di oggi, al mapping architetturale, ai ledwall. Tutte tecniche che nascono dalle idee di Svoboda, si sviluppano in ambienti diversi dal teatro, come televisione o concerti live, e vi ritornano sotto forma di scenografie virtuali o di immagini dal significato drammaturgico.
Nei primi decenni del Novecento anche l’avanguardia Futurista italiana ha influenzato il Teatro: “Sintetico polisensoriale simultaneo poliscenico aereopittorico aereopoetico cinematografico olfattivo tattile rumorista”, così Marinetti nel 1933, in Architettura e meccanismo del teatro totale, anticipa il concetto di contaminazione a cui oggi assistiamo.
Penso che una delle componenti che rende il teatro moderno importante in senso sociale sia il suo essere avanguardia nello sviluppo dei linguaggi della comunicazione. Tra i Futuristi, oltre alle tue citazioni, penso a Balla, il primo sperimentatore della luce dinamica in chiave artistica. Le avanguardie dell’arte hanno sempre influenzato l’espressione teatrale, utilizzando lo spazio scenico per sviluppare e sperimentare nuovi linguaggi di comunicazione.
A distanza di un secolo, la chiave di volta è la tecnologia, che, nell’ambito della luce e in particolare nella sua applicazione nello spettacolo, è avanzatissima. Qual è lo stato dell’arte del comparto illuminotecnico al Teatro alla Scala di Milano?
La tecnologia utilizzata in un teatro come la Scala deve essere costantemente aggiornata. In passato, si costruiva un parco luci che poteva soddisfare le esigenze sceniche per un decennio; oggi c’è la necessità di aggiornare anno dopo anno gli impianti e le tecniche di illuminazione. Un ruolo di avanguardia si costruisce anche passando attraverso upgrade costanti. Avere a disposizione i mezzi più avanzati può consentire l’origine di quei nuovi valori estetici di cui parli. Non c’è nessun automatismo però; la creatività e l’espressione artistica non dipendono mai solo dai mezzi a disposizione.

Un luogo complesso come il palcoscenico di un teatro d’Opera come coniuga le esigenze di allestimento delle diverse tipologie di spettacoli – Lirica, Balletti, Concerti – unitamente alle esigenze di programma del cartellone?
Il palcoscenico del Teatro alla Scala è una macchina molto complessa poiché la produzione di spettacoli all’interno di una stagione è estremamente intensa e diversificata. Per poter far fronte alla programmazione, disponiamo di un impianto luci permanente, quindi corpi illuminanti che rimangono montati stabilmente. Non ci sono i tempi per installare nuovi impianti tra una produzione e l’altra; quindi un impianto di base, integrato da installazioni specifiche per ogni singola produzione, rappresenta una soluzione ben gestibile. Il parco luci della Scala contiene tutte le tipologie dei proiettori, sia di vecchia generazione – come fresnel, sagomatori e piano convessi con sorgenti alogene a incandescenza o a bassa tensione –, sia moving light di tipologie diverse, con sorgenti a scarica, a LED in tricromia, quadricromia, penta cromia o con chip LED fino a 7 colori, diffusori per fondali e cambiacolori. La programmazione e la registrazione degli effetti di luci avviene attraverso 2 consolle e 6 operatori che si alternano coprendo l’intera giornata lavorativa.
Un parco luci ideale! La Scala offre il set-up per consentire ai light designer di progettare e realizzare le visioni immaginate con i registi con massima flessibilità e ampiezza di soluzioni!
Il lighting designer teatrale è spesso dotato di una “doppia anima”. Mi piace usare questo termine perché evoca sia qualcosa di intimo e profondo che avvicina all’espressione dell’arte e talvolta la realizza compiutamente, sia quel sapere fatto di esperienza e conoscenze tecniche. Credo che il Teatro alla Scala debba consentire ai light designer la più ampia possibilità espressiva attraverso una dotazione tecnica aggiornata. I professionisti, per conto loro, dovranno avere le competenze necessarie alla gestione degli impianti attuali, in cambio di una maggiore potenzialità creativa.
Un altro fattore fondamentale sono i tempi di prova in palcoscenico, che sono sempre più compressi a causa dell’aumento della programmazione e delle aperture di sipario. Come si riesce a far fronte a questa criticità?
L’aumento di produttività si traduce in una maggiore capacità nel rispettare tempistiche ridotte garantendo ugualmente il risultato atteso. Il light designer deve preparare il proprio progetto con grande attenzione, curandone anche i minimi dettagli. Lo spazio per la sperimentazione si è ridotto molto, l’utilizzo dei programmi di simulazione virtuale con i modelli 3D può essere di grande aiuto per accorciare i tempi della programmazione degli effetti di luci.
Lavori spesso all’estero; qual è la tua esperienza e quali sono le differenze nello svolgere la tua professione in Italia o in un altro Paese?
Le tecnologie in Europa si equivalgono in tutti i maggiori teatri. Il Teatro alla Scala di Milano, l’Opéra di Parigi o il Covent Garden di Londra hanno sistemi di lavoro e dotazioni molto simili. Ad esempio, in un’ottica di scambio di co-produzioni tra teatri, oggi molto diffusa, si cerca di uniformare anche le consolle di controllo delle luci per facilitare l’importazione di uno spettacolo da un teatro a un altro. Differente è la situazione negli Stati Uniti, dove c’è una cultura della luce molto diversa da quella europea e dove, sorprendentemente, si utilizzano di più i proiettori convenzionali.
Nei teatri americani quindi non si utilizzano i moving light?
Sono meno utilizzati rispetto all’Europa.
Quindi cambiano il linguaggio e il risultato?
No, assolutamente. Direi che la capacità del light designer, in questo caso, deve essere quella di saper tradurre, attraverso un adattamento dell’impianto, le caratteristiche dello spettacolo senza perderne il contenuto visivo e le finalità originali.
Torniamo in Italia; per il ventennale della scomparsa di Giorgio Strehler, la Scala ha riallestito nella sua immutata bellezza il Ratto dal Serraglio e tu hai firmato le luci. Vuoi raccontarci come ti sei misurato con questa pietra miliare del teatro d’Opera?
Il mozartiano Ratto dal serraglio è uno spettacolo da studiare. Dovrebbe far parte del programma di qualsiasi Accademia di Belle Arti o dello Spettacolo. È nato nel 1965 per il Festival di Salisburgo, con le scene e i costumi di Luciano Damiani, ed è stato replicato alla Scala e in molti teatri europei in questi 50 anni. È stato uno spettacolo che ha rivoluzionato, influenzato e modificato le messe in scena teatrali in modo indelebile. Mi spingo a dire che l’opera teatrale di Robert Wilson potrebbe non essere quella che tutti conosciamo oggi, se non ci fosse stato Strehler e il suo Ratto dal serraglio. Per capirne bene i contenuti altamente innovativi, si deve immaginare come venivano illuminati gli spettacoli fino a quegli anni e, in generale, quale fosse fino ad allora la funzione della luce. Come ha scritto sullo storico allestimento su Fermata spettacolo il critico Luigi Paolillo: “La regia di Strehler approfondisce il discorso metateatrale, imponendo agli attori non solo il movimento dalla luce all’ombra e viceversa, che già di per sé supera la finzione scenica, ma spesso li fa rivolgere direttamente alla sala, dà loro la possibilità di uscire ed entrare, in apparente libertà, dalla finzione teatrale, inchinandosi platealmente al pubblico dopo un’aria, o accendendo le mezze luci in sala durante l’esecuzione della stessa: teatro, puro teatro in controluce che ci mostra la natura artificiosa e illusoria non solo della scena stessa, ma pure di ciò che ci ostiniamo, contrapponendola ad essa, a chiamare realtà”. Mi sono avvicinato all’allestimento come chi entra in una cristalleria preziosa e delicatissima, con la volontà di riproporre intatto l’impianto originale e il suo canone prezioso, fatto di incandescenze a bassa tensione, fondali di cieli accecanti, profonde silhouette. È stata una “lezione” anche per me.
Dal tuo punto di vista privilegiato, quali sono i light designer italiani e internazionali da seguire con attenzione?
Lavorando al Teatro alla Scala ho potuto collaborare con molti professionisti della luce. Tra i tanti, segnalo due lighting designer italiani: Pasquale Mari e Alessandro Carletti. Mari collabora con il regista Mario Martone ed è stato il lighting designer dell’Andrea Chénier, titolo che ha inaugurato il 7 dicembre scorso la nuova stagione alla Scala e di cui ho letto la vostra bella e interessante conversazione su LUCE. Alessandro Carletti collabora stabilmente con il regista Damiano Michieletto, che ha un successo internazionale crescente. Oltre i confini italiani ho potuto conoscere personalmente A. J. Weissbard, come lighting designer di Robert Wilson e professionista della luce in vari settori, anche nella Moda; il russo Gleb Filshtinsky, che ha realizzato le luci di Madama Butterfly dello scorso anno e di altre produzioni scaligere; Peter van Praet, che collabora con il regista Robert Carsen; Jean Kalman. Il lavoro di Jean testimonia sempre una cifra stilistica riconoscibile e un linguaggio artistico proprio, per me è un punto di riferimento assoluto.
L’articolo è originariamente apparso su LUCE n°323, marzo 2018.