Farini, Greco, Lambrate, Porta Romana, Rogoredo, Porta Genova e San Cristoforo: sono i sette scali ferroviari milanesi in cerca di una riqualificazione urbanistica e ambientale, che rappresentano una sfida progettuale per Milano e per l’Europa.
Luoghi che la Fondazione Aem del Gruppo a2a intende raccontare attraverso lo sguardo di due maestri della fotografia contemporanea Marco Introini e Francesco Radino, entrambi paesaggisti urbani che hanno realizzato un reportage come il presupposto iconografico di preservare la memoria, l’identità di luoghi che, seppure abbandonati, rappresentano la storia dello sviluppo industriale della città. Ricoprono una superficie di un milione e 25 mila mq e hanno agevolato scambi, trasporti, comunicazioni di merci e prodotti di prima necessità intorno ai quartieri limitrofi; ma non dimentichiamo che sono stati forieri di esperienze, suggestioni, e di chissà quante storie, iconizzati in nuovi scenari da artisti, registi, fotografi e scrittori.
Per riscoprirli o guardarli con una nuova sensibilità, la mostra inaugurata a Milano nei giorni scorsi “Gli Scali ferroviari di Milano. Oggi, prima di domani”, a cura di Marco Introini con la collaborazione dei due fotografi, presso la Casa dell’Energia e dell’Ambiente, in Piazza Po 3, fino al 28 dicembre.
Dagli anni Ottanta, l’Aem ha commissionato a diversi fotografi il compito di documentare le trasformazioni di Milano, partendo dagli edifici industriali; progetti di modernizzazione delle infrastrutture di rete, come nel caso della metanizzazione, dell’illuminazione o del teleriscaldamento, in linea con una nuova sensibilità estetica dei paesaggi industriali sviluppata da maestri del genere come Gianni Berengo Gardin, Gabriele Basilico e altri autori che hanno documentato i cambiamenti: una tradizione iconografica riavviata dalla Fondazione Aem nel 2016, con la campagna di Francesco Radino sulle “cattedrali dell’energia”.
I sette scali ferroviari rappresentano il punto di snodo per lo sviluppo di Milano, come è tutto ancora da immaginare. I reportage sui generis di Introini e Radino, fuori e dentro queste vaste aree, coniano un linguaggio iconografico suggestivo, con immagini che aprono riflessioni sul ruolo della loro memoria, senza retorica. Marco Introini (1968) ha ritratto l’esterno degli scali, immortalando le architetture maestose in bianco e nero per cogliere intersezioni tra la città otto-novecentesca e la Milano del terzo millennio, mentre Francesco Radino (1947) si è concentrato sull’interno degli scali, con uno sguardo poetico sul rapporto tra aree costruite, abbandonate nel tempo, e natura, che lentamente si riappropria di tutto ciò che l’uomo, nel processo di industrializzazione della città, le ha sottratto.
Introini, nella serie di fotografie intitolata Spazio Sopeso, iconizza uffici, magazzini e altre architetture metafisiche, fuori dal tempo, osservate intorno agli scali, valorizzando linee prospettiche tracciate dalla ferrovia. I suoi dettagli di volumi geometrici degli edifici modernisti ci appaiono quasi ciclopici, poiché danno forma al tempo e conservano la memoria di chi lì dentro ha lavorato, vissuto e forse sognato trasformazioni dei modi di vivere la città, archeologie di un tessuto urbano complesso dall’operosità passata.
Francesco Radino, nella serie intitolata Palingenesi, coglie l’aspetto più intimo, misterioso e poetico di queste immense aree solcate dai binari morti, arterie della modernità, indicatori di una energia sottesa nel cuore pulsante del progresso, con intersezioni tra spazi vuoti e pieni, intrecci di forme verticali e orizzontali; vedute a lungo raggio suggerite da foreste di pali dell’energia e tralicci dei cavi elettrici che dialogano con la natura, in cui la vegetazione spontanea e gli alberi prendono il sopravvento con scenari irrorati di luce diafana e trasparente. Nelle sue vedute “impressionistiche” degli scali fotografati in diverse ore del giorno, passando da cieli grigi d’inverno a quelli più luminosi della primavera e assolati dell’estate, si coglie metaforicamente il concetto di vita, di rinnovamento insito nella luce e la valorizzazione degli aspetti naturali dei luoghi urbani soggetti a costanti trasformazioni, in cui il verde si erge a vessillo di speranza di una futura città-giardino da vivere, dove l’uomo recupera il rapporto con la natura e i suoi simili.