Massimo Uberti maestro di Light Art fa luce sullo spazio immaginato

François Morellet: galleria a Arte Invernizzi Milano e Annely Juda Fine Art Londra

“PICASSO. LA METAMORFOSI DELLA FIGURA”. LA MOSTRA AL MUDEC DI MILANO

Allestimento della mostra di Picasso al Mudec. Photo @ Carlotta Coppo

Il 2023 ha celebrato i 50 anni della scomparsa di Picasso (1881-1973) in diverse città d’Europa. Milano. fuori tempo massimo, presenta al Mudec – Museo delle Culture la mostra, didattica e scientificamente corretta, ma non scontata, intitolata Picasso. La metamorfosi della figura, a cura di Malén Gual, conservatrice onoraria del Museo Picasso di Barcellona e Ricardo Ostalé. La mostra, che si concluderà il 30 giugno, è prodotta da 24 ORE Cultura e promossa dal Comune di Milano, con il contributo di Fondazione Deloitte e sotto il patrocinio dell’Ambasciata di Spagna e dell’Istituto Cervantes.

Pablo Picasso
Quaderno “Les Demoiselles d’Avignon”, f.33v-28r: Nudo seduto con le braccia alzate e Nudo appoggiato con un braccio alzato
1907
Museo Casa Natal Picasso, Málaga
© Succession Picasso, by SIAE 2024

Il titolo, non troppo originale, punta sulle metamorfosi stilistiche del genio spagnolo che, come già sappiamo dalle precedenti decine di mostre viste, tra il 1906 al 1909 ha trovato nell’arte primitiva e in particolare in quella africana un nuovo modo di rappresentare la figura, sempre contemporaneo. Sempre al Mudec si trovano quaranta opere in dialogo con le collezioni etnografiche del museo, aperto alle culture extraeuropee, e diversi reperti archeologici, con l’obiettivo di valorizzare le contaminazioni interculturali per comprendere le evoluzioni dell’arte nel Novecento.

Pablo Picasso
Nuda
Femme nue
1907, Olio su tela
Museo del Novecento, Milano
© Succession Picasso, by SIAE 2024

Dipinti, sculture, disegni e, imperdibili, ventisei studi tratti dal Quaderno n.7 della Fondazione Pablo Ruiz Picasso – Museo Casa Natal di Malaga che documentano il processo di elaborazione “in divenire” del celebre primo quadro cubista Les Demoiselles d’Avignon (1907) di Picasso. Questa opera rivoluzionaria è il risultato sintetico e formale dopo la scoperta dell’artista dell’Art Nègre al Trocadero, museo etnografico a Parigi, dall’energia apotropaica, magica e primitiva. Le sue spigolose figure asimmetriche, annullano la prospettiva, sono antiestetiche e ribaltando i canoni estetici dell’arte Occidentale. Fu Matisse ad avvicinare Picasso all’arte africana di cui divenne un collezionista convulsivo di maschere e sculture, o meglio feticci carichi di magia ancestrale, dotati di una espressività sconvolgente per gli occidentali dell’epoca.

Picasso da sempre mostrò rispetto per le arti di altre culture non europee: nel suo “primitivismo” c’è la volontà di trovare un’arte non mimetica e accademica, prima individuata nell’arte iberica e poi nella scultura africana, in cui c’è l’origine dell’umanità primigenia.

Nella mostra, suddivisa in cinque sezioni, spiccano i suoi disegni volti alla ricerca di un nuovo linguaggio formale, opere che, secondo il critico e storico dell’arte Carl Einstein, sono: “L’espressione di un dubbio tragico sulla realtà apparente dell’universo delle forme”, lontano dalla rappresentazione tradizionale della figura, puntando su inedite semplificazioni formali, dalle opere giovanili alle più inedite, fino agli anni Sessanta.

IL PERCORSO DELLA MOSTRA ALLA RICERCA DI UN NUOVO LINGUAGGIO FORMALE CON LO SGUARDO PUNTATO VERSO ALTRE CULTURE

Pablo Picasso
Testa indiana variopinta
Tête d’indien bariolé
1907-08
Olio su tavola
Collezione privata
© Succession Picasso, by SIAE 2024

Picasso con il ritorno al “primitivismo”, intorno al 1925, trae spunto da esempi neolitici e proto-iberici (della Spagna pre-romana), prendendo ispirazione dall’arte oceanica e dall’antica arte egizia e da quella della Grecia classica- Per l’artista: “Non c’è passato né futuro nell’arte. Se un’opera d’arte non può vivere sempre nel presente, non ha significato”.

Nella seconda sezione spiccano i ventisei disegni del Quaderno n.7 di Les Demoiselles d’Avignon, in cui si fanno notare la maschera Suruku, e la scultura Dogon e quella di Tellem e lo straordinario dipinto Femme Nue, in prestito dal Museo del Novecento di Milano, che finalmente guardiamo e non dimentichiamo, grazie al progetto illuminotecnico dell’architetto Francesco Murano, noto per la sua sensibilità spaziale, e l’eccellente allestimento a cura di Cesare Mari, Panstudio. Queste due opere, viste insieme ad alcune maschere africane, colgono in una elegante sintesi formale la ricerca creativa di Picasso, elaborata in 189 quaderni, in cui almeno 16 riportano disegni relativi a Les Demoiselles d’Avignon con riferimenti a molteplici fonti, dalle Bagnanti di Cezanne, alla scultura iberica, all’arte romanica catalana e alle maschere africane e oceaniche.

Romuald Hazoumè
BLM, 2020 Signé, titré et daté
Plastique et cuivre 30 x 21 x 17 cm
© Romuald Hazoume, by SIAE 2024

Nella terza sezione sono esposte figure dal 1908 al 1917, quando Picasso non faceva distinzione di rappresentazione tra oggetti, paesaggi e persone, preso com’era dalla ricerca di un’arte non imitativa, ma neppure astratta, dove si trova una scultura tribale CHAMBA, messa a confronto con le opere cubiste dell’artista.

Nella quarta sezione Dagli Anni ‘20 alla Seconda Guerra Mondiale, si documenta la permanenza dell’arte tribale nell’opera di Picasso che si apre con la scultura IGBO ALUSI, dall’espressività atemporale che si trova nelle opere degli anni ’20-’30, come anche nei bozzetti per Guernica presenti in mostra.

La quinta sezione, intitolata Metamorfosi della figura, presenta opere dal 1930 al 1970, quando magia, ricerca di sintesi formale antiaccademica, intrise di una misteriosa potenza erotica, sono diventate la sua inconfondibile cifra stilistica. Spiccano opere dalle linee più morbide, distanti dalla rappresentazione geometrica del periodo cubista, sinuose e distorte in cui sempre si evince la figura umana.

Allestimento della mostra di Picasso al Mudec. Photo @ Carlotta Coppo

Pima di accedere alla sesta sezione, dove sono esposte magnifiche sculture di artisti africani contemporanei sedotti da Picasso, come il beninese Romuald Hazoumè, il mozambicano Goncalo Mabunda e il congolese Chéri Samba, cariche di valenze magico – religiose, implicite nelle maschere rituali, sono visibili le eccellenti videoinstallazioni a cura di Storyville, raccolte sotto il titolo A visual Compendium, che approfondiscono il contesto cultuale in cui Picasso visse e aiutano il visitatore a comprendere il rapporto tra le arti primigenie e l’artista. Tra gli altri video, è una chicca imperdibile la proiezione di METHAMORPHOSIS, che mostra un Picasso maturo mentre disegna nel buio, con un gesto frenetico e inarrestabile, segni e linee luminose nell’aria. È il primo light painting della storia dell’arte realizzato da Gjon Mili, fotografo newyorchese d’origine rumena per la rivista Life nel 1949, l’incipit della Light Art, nello stesso anno del primo Ambiente Spaziale a Luce Nera di Lucio Fontana.

AL MA*GA DI GALLARATE DADAMAINO E DINTORNI

Dadamaino, Volume, idropittura su tela, 60×50 cm, collezione privata
Photo courtesy MA*GA

A Gallarate (VA) il MA*GA continua a sorprendere per qualità espositiva, con tre mostre monografiche di Michele Ciacciofera (Nuoro, 1969) e Giovanni Campus (Olbia, 1929) da scoprire nello scrigno lombardo, dove spicca una antologica completa di una protagonista dell’avanguardia astratta, entrata nella storia dell’arte del secondo Novecento. Stiamo parlando dell’indomabile Dadamaino, all’anagrafe Edoarda Emilia Maino (Milano, 1930-2004), che folgorata da un Concetto Spaziale (di colore blu viola) di Lucio Fontana nel 1956 – un faro per tutti gli artisti dell’epoca – esposto in un negozio di elettrodomestici in via Cordusio a Milano, abbandona la figurazione per dedicarsi alla serie di Volumi (1958-60).

Dada a Milano debutta con tele monocrome, esposte per la prima volta il 18 dicembre del 1959 a Brera, nell’ambito della mostra La donna nell’arte contemporanea. Si tratta di tele perforate a mano intese non tanto come superficie pittorica, bensì come oggetto, una variazione originale dei tagli di Fontana.

Dada è l’unica donna a inserirsi attivamente nella ricerca di Azimuth, nuovo linguaggio di Piero Manzoni ed Enrico Castellani, e partecipa alle collettive della nuova galleria Azimut in via Clerici 12 a Milano. Vive e lavora in un contesto culturale prevalentemente maschilista, proponendo una ricerca già riconoscibile dal 20 maggio del 1961, quando espone alla Galleria del Gruppo N di Padova. La presentazione è scritta dall’amico Piero Manzoni che nelle sue opere vedeva “bandiere di un nuovo mondo”. Le altre due donne di scena a Milano in questo periodo sono Nanda Vigo e Grazia Varisco, attiva nel Gruppo T.

PERCORSO ESPOSTIVO DI DADA IN DIALOGO CON LE OPERE DELLA COLLEZIONE DEL MA*GA 

Dadamaino, Progetti per oggetto cinetico spettrocolore, 1966, poliestere, diam max 23 cm, collezione privata
Photo courtesy MA*GA

La mostra comprensiva di 80 opere, anche di grandi dimensioni, a cura di Flaminio Gualdoni, responsabile scientifico dell’Archivio Dadamaino e co-curatore alla celebre mostra della Biennale di Venezia nel 1990 (quando furono esposti due poliesteri lunghi 18 metri ciascuno), si apre con i Volumi che dialogano con opere di Fontana e di Manzoni e altri compagni di ricerca dell’avanguardia milanese tra gli anni Cinquanta e Sessanta, aperta a nuovi linguaggi non figurativi, incentrata sullo spazio e la percezione visiva.

Oltre alle opere di Dada si scoprono quelle dei gruppi milanesi più sperimentali dell’epoca, ci sono anche fotografie di Dada, bella, giovane e determinata, che nel 1976 ha partecipato con due opere alla seconda mostra della X edizione del Premio Nazionale Arti Visive Città di Gallarate, fondato nel 1949. A questa mostra espone Rilievo bianco inclinato 18°, 1975, legno verniciato, 100×100 cm, e Volume a moduli sfasati, 1960, plastica, 100×100 cm. Quest’ultima opera è stata acquistata dalla commissione artistica per essere destinata, come tutti gli acquisti del Premio Gallarate, alla collezione permanente della Civica Galleria d’Arte Moderna, ora MA*GA.

Il percorso espositivo s’innesta sulle opere di Dada per il MA*Ga, si apre con la serie dei Volumi, superfici monocromi forate a mano, bianche o nere o su tele dipinte, e prosegue con i Moduli sfasati e i Rilievi. Incantano per qualità manuale i suoi cartoncini e rhodoid tagliati a lamelle per dare forma ad alterazioni tridimensionali delle superfici in bilico tra pittura e scultura. Sono folgoranti i suoi Oggetti ottico-dinamici, strutture tridimensionali, realizzati con piastrine di alluminio con l’obiettivo di creare effetti geometrici circolari. Tutte le opere stroboscopiche degli anni Sessanta sono il risultato delle sue frequentazioni con il GRAV – Groupe de Recherche d’Art Visuel, e altri gruppi come Gruppo Zero, e Punto.

Dadamaino, Movimento delle cose, 164×116 cm, collezione privata
Photo courtesy MA*GA

Dada in constante evoluzione, nei Componibili e con Ricerca del colore (in mostra 5 tavole su 100), degli anni Settanta, documenta il suo interesse per il colore per le sue qualità percettive. L’artista nel 1969 ha partecipato a progetti ambientali: non vincerà, ma è già “immersivo” Environment lumino-cinetico. Questo progetto è stato ideato per un concorso che prevedeva di collocare opere lungo le vie e piazze parigine studiate per Place du Châtelet di Parigi a cura di Frank Popper.

Lo stesso anno realizza Illuminazione fosforescente automotoria sull’acqua nell’ambito di Campo urbano a Como, in cui disperde sulla superficie del bacino del lago di Como circa mille tavolette di polistirolo di vernice fosforescente. Nel 1976 Dada espone L’Inconscio razionale e approda a L’alfabeto della mente (1977), quando turbata dall’eccidio di palestinesi raccolti nel campo profughi libanese di Tell al–Za’tar (1976), inizia a tracciare piccoli segni come silente manifestazione di indignazione e protesta. Inquietano i suoi brulicanti segni verticali e orizzontali che non diventano parola, ma tracciano grafismi evolutivi che si espandono nello spazio del foglio di cartoncino o su tela già preparata, come delle stele, senza soluzione di continuità, che esposti al MA*GA in questo drammatico periodo bellico di genocidi sono di scottante attualità.

METALINGUAGGIO E GRAFISMI DINAMICI: UN INNO ALLA VITA

Dadamaino, Costellazione, 1984, inchiostro su carta su tela sintetica, 70×94 cm, collezione privata
Photo courtesy MA*GA

La dimensione scritturale culmina nei Fatti della Vita (1978-1982), un ciclo importante che è alla base di una installazione ambientale creata per la sala alla XXXIX Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia del 1980. Così come anche nel ciclo Costellazioni (1981-1987) su carta, cartoncino o carta montata su tela, in cui i segni ripetuti diventano sempre più microscopici quasi dei punti segmenti minimi, disposti in maniera ritmica; ideali spartiti di energia vitale del Cosmo.

La mostra si conclude con l’installazione ambientale Il movimento delle Cose (1987-1996), caratterizzata da piccoli segni in divenire ancora più vorticosamente ritmici rispetto a Costellazioni. I suoi sciami di trattini in uno speciale inchiostro nero, sviluppati su fogli trasparenti di poliestere, sembrano cogliere il Panta Rei di Eraclito, lo scorrere dell’acqua e la trasparenza dell’aria. Questo imponente ciclo montato su cavetti d’acciaio fu presentato nel Padiglione Italia della XLIV Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale a cura di Laura Cherubini, Flaminio Gualdoni e Lea Vergine, con due lavori delle dimensioni di 1.22×18 metri entrambi montati in parallelo a formare un ambiente. Al Ma*Ga i suoi fogli trasparenti vibrano in un ambiente bianco e asettico illuminato da luce artificiale e naturale catturata da lucernari della sinuosa architettura, dove si ricorrono pulsanti organi vitali di un nuovo mondo.

MARCEL DUCHAMP E LA SEDUZIONE DELLA COPIA. VENEZIA, COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM

Marcel Duchamp
Nu (esquisse) / Jeune homme triste dans un train (Nudo [schizzo] / Giovane triste in treno), dicembre 1911 (datato 1912).
Olio su cartone telato, montato su pannello di fibre di legno pressate, inchiodato al telaio,
100 × 73 cm.
Venezia, Collezione Peggy Guggenheim (Solomon R. Guggenheim Foundation, New York).
© Association Marcel Duchamp, by SIAE 2023
La Collezione Peggy Guggenheim per la prima volta espone a Palazzo Venier dei Leoni, sul Can Grande di Venezia, sessanta opere di Marcel Duchamp (Blainville-Crevon 1887- Neuilly-sur-Seine 1968), padre del dadaismo e precursore dell’arte concettuale. In mostra tra dipinti, fotografie, valige e altri inediti lavori, realizzati tra il 1911 e il 1968, spiccano i suoi ready-mades iconici, Boîte-en-valise (Scatola in valigia, 1935-1941), che hanno rivoluzionato la storia dell’arte contemporanea.

Le opere provenienti da musei nazionali e internazionali e dalla Collezione Guggenheim, quali per esempio Nudo (schizzo), Giovane triste in treno (1911), e Scatola in valigia (1935-41), aprono   riflessioni sul valore estetico e sul rapporto convergente tra opera originale e la copia di Marcel Duchamp, scacchista e regista dirompente, che ha aperto lo sguardo “non retinico” sull’arte contemporanea.

La mostra intitolata Marcel Duchamp e la seduzione della copia, ospitata alla Collezione Guggenheim a cura di Paul B. Franklin, studioso indipendente a Parigi e massimo esperto di Duchamp, artista geniale e amico influente nonché mentore e consigliere dal 1937 della mecenate Peggy Guggenheim, presenta al grande pubblico, tra le opere celebri, un nucleo di lavori meno noti  di collezionisti privati e Il re e la regina circondati da nudi veloci (1912), capolavoro proveniente dal Philadelphia Museum of Art, per la prima volta messo in dialogo con la sua riproduzione colorata dall’artista (coloriage original), contenuta all’interno di Scatola in valigia (fino al 18 marzo, catalogo edito da Marsilio editore).

La metà delle opere esposte provengono dalla prestigiosa Collezione veneziana di Attilio Codognato, raffinato collezionista che dagli anni Settanta si è interessato a Duchamp.

Scatola in valigia: una raccolta di facsimili originali, riproduzioni e repliche in miniatura dei lavori di Duchamp

Marcel Duchamp
Le Roi et la reine entourés de nus vites (Il re e la regina circondati da nudi veloci), maggio 1912
Olio su tela
114,6 × 128,9 cm
Philadelphia Museum of Art, The Louise and Walter Arensberg Collection, 1950
© Association Marcel Duchamp, by SIAE 2023

Duchamp ha riprodotto i suoi lavori con tecniche diverse, in dimensioni ed edizioni limitate, mettendo in discussione la dicotomia tra l’originale e la copia, superando il concetto platonico di mimesis per dimostrare che anche i duplicati sono opere d’arte autoreferenziali, con lo stesso valore estetico degli originali. In questa mostra capiamo perché le copie sono comunque l’espressione della libertà inventiva dell’autore.

Duchamp enfatizza il procedimento mentale rispetto all’antefatto, ossessivamente cita se stesso fino alla fine della sua vita nei suoi facsimile, lo fa però senza annoiarci, come suggerisce il titolo dell’esposizione veneziana, con la riproduzione delle stesse opere che non esasperano, ma al contrario seducono il nostro sguardo. Alcune sono anche personalizzate.

Il percorso espositivo è suddiviso per sezioni, in cui si ha la possibilità di cogliere tra una copia e l’altra variazioni minime di dettagli. Non poteva mancare la sezione dedicata all’amicizia tra Duchamp e Guggenheim con fotografie e altri materiali, inclusa una intervista a Peggy che non rivela nulla di intimo e personale dell’artista. Dalla mostra si esce con la consapevolezza che la copia della copia risulta originale e soprattutto non perde quell’aura che per Walter Benjamin era insita solamente nell’opera originale e non nella sua ripetizione. Come dichiara Duchamp in una intervista del 1967: “Distinguere il vero dal falso, così come l’imitazione dalla copia, è una questione tecnica del tutto idiota”.

Marcel Duchamp
de ou par Marcel Duchamp ou Rrose Sélavy (Boîte-en-valise)
(da o di Marcel Duchamp o Rrose Sélavy [Scatola in una valigia]), 1935–1941
Valigia ricoperta in pelle di vitello contenente cartone, legno, tela rigida, tela cerata, velluto, ceramica, vetro, cellophane, gesso, filo di ferro, elementi in ferro e ottone; riproduzioni a stampa tipografica, collotipia e litografia su carta, cartoncino, tela e acetato di cellulosa con tempera, acquerello, pochoir, inchiostro, grafite, resine vegetali e gomme naturali.
40,9 × 37,7 × 10,4 cm (contenitore chiuso, dimensioni massime)
Edizione deluxe: I/XX
Venezia, Collezione Peggy Guggenheim (Solomon R. Guggenheim Foundation, New York)
© Association Marcel Duchamp, by SIAE 2023
Il fil rouge  della mostra è il dialogo convergente tra originale e riproduzione nell’opera dadaista che trova la sua massima espressione nella serie dal titolo de ou par Marcel Duchamp ou Rrose Sélavy (Boîte-en-valise), valige rivestite in pelle di vitello contenenti scatole suddivise in scomparti, dentro i quali si trovano le riproduzioni dei capolavori dell’artista francese. Seducono per raffinatezza e originalità le stampe di vario genere, minuziosi modellini a incastro in un complesso marchingegno, fotografie disposte in maniera ordinata all’interno di una valigia con tanto di preziosa serratura. La prima versione di Boîte-en-valise è un museo portatile contenente una antologia delle opere più significative di Duchamp, in cui si riconosce a colpo d’occhio in miniatura Foutain, l’orinatoio rovesciato, ready made – icona della storia dell’arte del Novecento, senza rivelare che è lui l’autore, presentato come scultura alla Society of Independent Artist di New York nel 1917, rifiutato con sdegno dal comitato organizzativo della mostra annuale. La sua Valigia, paradossalmente, è quasi un catalogo ragionato delle sue opere, seppure diversamente impostato e trasformato in opera d’arte. Le versioni della valigia contengono una riproduzione in callotipia colorata a pochoir di una delle sue tele più importanti per dimensione e complessità, intitolata Le roi e la reine entourés de nus vites (Il re e la regina circondati da nudi veloci) del 1912. Allo sguardo più attento non sfugge la raffinatezza della Valise n. I/XX destinata a Peggy, comprensiva di 69 opere e di un pezzo originale, che conta ventidue esemplari con serratura firmata Louis Vuitton (must del lusso francese di ieri e di oggi) e in particolare la presenza di un pezzo “originale”, come il colorige diventato prototipo per la riproduzione della callotipia. Tutte le riproduzioni nelle sue valige custodiscono i segreti, associazioni inedite, assemblaggi, estetica, ironia e biografia di Marcel Duchamp che anticipa il gusto provocatorio del Dadaismo e mette in crisi l’idea di opera d’arte. Ancora oggi, con la sua maggiore opera ermetica Grand Verre (1915-1923), una composizione su vetro carica di valenze erotiche e meccaniche e criptici riferimenti alchemici, di difficile decodificazione, composta da elementi diversi risveglia, l’attenzione sulla lettura concettuale dell’opera stessa all’insegna della libertà espressiva dell’autore.

Mostra nella mostra: Un viaggio nel restauro scientifico nelle Boîte-en-valise

Marcel Duchamp con l’esemplare non ancora completato di da o di Marcel Duchamp o Rrose Sélavy (Scatola in una valigia) 1935–41, in casa di Peggy Guggenheim, 440 East Fifty-first Street, New York, agosto 1942. La fotografia è in origine pubblicata in Time, 7 settembre 1942.

Parallelamente all’esposizione è interessante la sezione scientifica, organizzata dall’opificio delle Pietre Dure di Firenze, Marcel Duchamp: un viaggio nella “Boîte-en-valise” che presenta il risultato dello studio scientifico e dell’intervento di conservazione sull’opera de ou par Marcel Duchamp ou Rrose Sélavy (Boîte-en-valise) condotto in due fasi, nel 2019 e nel 2023, nei laboratori di restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e sostenuto da EFG, Istitutional Patron della Collezione Peggy Guggenheim 2006.

ACCADEMIA CARRARA DI BERGAMO. LA MERAVIGLIA DEL RESTAURO ALL’INSEGNA DELLA CHIAREZZA, RAFFINATEZZA E RELAZIONE CON LA CITTÀ

A Bergamo l’Accademia Carrara nasce da una idea visionaria di Giacomo Carrara, conte bergamasco che ha dato vita all’importante istituzione museale, fondata nel 1796 grazie alla sua passione di collezionista e raffinato conoscitore dell’arte, a partire dalla sua. Il palazzo dell’Accademia, è conforme ai disegni di Costantino Gallizioli, tra gli anni 1767-1774, e l’attuale Accademia in stile neoclassico risale al 1804, quando fu ampliata sul progetto di Simone Elia.

Il nuovo allestimento dell’Accademia Carrara di Bergamo
Photo Mario Rota, courtesy Accademia Carrara

Qui il fruitore intraprende un viaggio nel tempo che inizia idealmente con Pisanello e si conclude con Pelizza da Volpedo, attraverso oltre trecento opere suddivise in 16 sale tra dipinti e scultura, tracciando una mappa della storia dell’arte italiana e del collezionismo. Accanto alla galleria, il conte Carrara fece istituire anche la Scuola, tra il 1912 e il 1914, trasferita nel cortile retrostante dell’Accademia, con l’intenzione di dare la possibilità agli studenti di affiancare allo studio la pratica dell’arte, partendo dall’osservazione diretta dei modelli esposti nell’adiacente pinacoteca. La gestione della pinacoteca e della scuola originariamente venne affidata alla “Commissione”, un comitato composto da esponenti dell’aristocrazia della città di Bergamo.

L’Accademia è considerata il museo del collezionismo italiano, vanta oltre 260 donatori e le sue raccolte sono lasciti di illuminati mecenati che hanno contribuito ad accrescere il patrimonio culturale della città, donando le loro collezioni alla collettività. L’Accademia conserva e tutela i dipinti di Pisanello, Foppa, Bellini, Mantegna, Crivelli, Cosmè Tura, Vivarini, Botticelli, Bergognone, Carpaccio, Palma il Vecchio, Raffaello, Tiziano, Baschenis, Fra Galgario, Tiepolo, Canaletto, Hayez, Piccio, Pelizza da Volpedo, e il corpus di opere più importante al mondo di Lorenzo Lotto e Giovanni Battista Moroni, oltre alla raffinatissima parte del Mazzo Visconti Sforza di tarocchi. Lotto, Moroni, Baschenis e Fra Galgario, sono protagonisti a Bergamo e nelle opere esposte si racconta l’evoluzione della pittura italiana, microstorie locali in relazione alla scuola veneta e toscana. L’Accademia è una istituzione che oltre a promuovere grandi mostre è impegnata, con continuità, in progetti di studi e di ricerca, confermati dalle molte attività di aggiornamento, campagne conservative e di restauro e progetti speciali nell’ambito didattico e formativo, investendo anche nei canali social, dove con l’account Instagram, seguito da oltre 50.000 followers, il museo si attesta tra le istituzioni culturali in Italia più seguite, ora anche grazie alla nuova audioguida con voce di Linus.

RESTYLING E RIPENSAMENTO PROGETTUALE DELL’ACCADEMIA CARRARA DAL 2023  

Il nuovo allestimento dell’Accademia Carrara di Bergamo
Photo Mario Rota, courtesy Accademia Carrara

L’Accademia Carrara, diretta da Maria Cristina Rodeschini, dopo il restauro dell’architettura con una radicale redistribuzione degli spazi interni, l’apertura di 3mila metri quadri di giardino e la creazione di nuovi spazi, espone opere prodotte lungo un arco cronologico di cinque secoli, dall’inizio del Quattrocento alla fine dell’Ottocento. Questo patrimonio è cresciuto nel tempo grazie a generose donazioni e lasciti di Guglielmo Lochis (1866), Giovanni Morelli (1891) e Federico Zeri (1998), fino agli anni recenti con Mario Scaglia che testimoniano un’ininterrotta tradizione di mecenatismo avviata da Giacomo Carrara (1796). Affiancano queste importanti donazioni oltre duecento lasciti che hanno arricchito e diversificato le collezioni del museo. A dipinti e sculture (134) si aggiungono disegni, stampe e preziosi nuclei di arte decorative: bronzetti, medaglie, ventagli, porcellane, peltri, argenti e oreficerie. Poche altre pinacoteche in Italia vantano una rassegna così completa sulle scuola veneta e lombarda, oltre a un nucleo straordinario di opere del Rinascimento toscano. Nel complesso il patrimonio del museo comprende 1.800 dipinti, più di 3mila disegni, oltre 8mila stampe e altri oggetti, sculture e mobili, una biblioteca storica con volumi appartenuti a Giacomo Carrara e materiali dell’Accademia.

Il nuovo allestimento dell’Accademia Carrara di Bergamo
Photo Mario Rota, courtesy Accademia Carrara

Dopo sette anni di chiusura necessari per portare a buon fine il lavoro di restauro e di adeguamento impiantistico dell’edificio, l’Accademia ha riaperto i battenti nel 2015 e la sua gestione, dal 2016 è affidata alla Fondazione Accademia Carrara, istituzione a partecipazione pubblico-privata presieduta da Giorgio Gori, diretta da Maria Cristina Rodeschini, con Gianpietro Bonaldi come responsabile operativo.

Il nuovo ordinamento realizzato in questi mesi, all’interno di Accademia Carrara, prevede una divisione nei due piani della sede storica. Al secondo piano si trova una selezione di 3mila opere della collezione permanente, mentre al primo piano saranno protagoniste un ciclo di mostre temporanee e, dal 2024, focus dedicati a una parte di collezione, non esposta prima, per ampliare le ricerche sull’identità del patrimonio culturale aperto a riletture, volte a consolidare gli ottimi rapporti istituzionali tra Accademia Carrara e i musei d’Europa e del Mondo.

LA NUOVA CARRARA DALL’ESSENZA GREEN NELL’ANNO DI BERGAMO E BRESCIA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2023

Il nuovo allestimento dell’Accademia Carrara di Bergamo
Photo Mario Rota, courtesy Accademia Carrara

L’Accademia Carrara è un laboratorio di cultura che continua a cambiare, dal 2023 è incentrata sul futuro e gestione sostenibile del museo, sul ruolo delle tante necessità e opportunità contemporanee.

Maggiore identità, attrattività, flessibilità, sono le parole chiavi per la valorizzazione dell’identità dell’Accademia Carrara, laboratorio culturale dove conversare, studiare, ricercare, promuovere e divulgare la cultura.

L’architetto Antonio Ravalli (1961), con il suo team ha reso più funzionale il percorso espositivo a partire dall’accoglienza del pubblico (piano terra), con l’aggiunta di un nuovo bookshop e uno spazio destinato alla storia dei donatori della Carrara, raccontata in un video che illustra la storia dell’Accademia, davvero accattivante anche sul piano grafico. Il primo piano è destinato a mostre temporanee e a un ciclo di appuntamenti dedicati a proporre, a rotazione, opere non esposte e ad accogliere prestiti nazionali e internazionali messi in dialogo con la collezione. Inoltre, l’introduzione di un nuovo deposito costruito secondo i più innovativi standard museografici, permette di raccogliere e preservare, per la prima volta direttamente all’interno del museo, le opere non esposte, ottimizzando così tempi e risorse.

L’Ala Vitali, sempre al piano terra, ospiterà invece progetti destinati al restauro e alle operazioni di controllo dello stato di conservazione delle opere.

Il nuovo allestimento dell’Accademia Carrara di Bergamo
Photo Mario Rota, courtesy Accademia Carrara

Al primo piano si trova la collezione permanente del patrimonio artistico con i capolavori esposti sulle pareti colorate, un’intuizione raffinata che “schiarisce” le sale grazie anche un progetto illuminotecnico funzionale. Due i percorsi cromatici, blu e rosso, sotto la luce di un’aurora progressiva. L’architetto Ravalli, interessato a processi di trasformazione del paesaggio urbano e territoriale, ponendo attenzione alla lettura dello spazio contemporaneo mediante una mirata scelta di materiali e del loro utilizzo, e in particolare della luce, ha commentato: “L’effetto complessivo è intensificato da una illuminazione ad aurora in cui i proiettori focalizzano l’attenzione sulla fascia centrale delle pareti, sfumando verso i margini inferiore e superiore come in orizzonte”.

Entrati nel museo dall’austera facciata neoclassica, sarete catapultati nella vertiginosa installazione site-specific permanente del duo californiano Fallen Fruit, composto da David Allen Burns e Austin Young, intitolata Conversazioni sacre, in una pioggia di frutti, fiori, insetti, mani, gesti, sguardi e altri dettagli rubati dai dipinti della collezione e della città: è una celebrazione in chiave pop dell’Accademia e di Bergamo che trasforma la scala d’accesso al museo (ascensore incluso) in una tavolozza gioiosa di forme in movimento di forte impatto scenografico, piacevolissimo, in cui il fruitore è parte integrante dell’opera.

Tra interno ed esterno, la costruzione di un percorso coperto collegherà i tre piani, offrendo una nuova e inedita prospettiva dell’Accademia nel contesto delle mura venete, patrimonio Unesco. All’esterno, il pubblico del museo, così come i cittadini e turisti, potrà godere della bellezza del luogo nell’area verde con bistrot denominata I Giardini  di PwC, dall’estate del 2023 aperta a tutti come segno tangibile di inclusione della comunità, valorizzazione del patrimonio, creazione di nuove opportunità, sostenibilità ambientale. Questo importante intervento di riqualificazione s’innesta con un altro progetto, “Città Natura”, per Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023. È un progetto che punta sulla trasformazione in dialogo con la società, mirato alla salvaguardia del paesaggio, in cui museo, cultura, storia, arte e architettura suggeriscono nuovi percorsi fisici e mentali di conoscenza di Bergamo e della bellezza del nostro Paese.